Commentators

La realizzazione degli audiovisivi si è avvalsa, nel tempo, della collaborazione di valenti sacerdoti che hanno curato i commenti al Vangelo.

Dal 2006 al 2008, padre Lino Pedron

Nato il 26 febbraio a Mezzocorona (TN), sacerdote della Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore (dehoniani, fu parroco a Bologna, rettore della comunità del Liceo Dehon a Monza, animatore di “Proposta Cristiana”, associazione giovanile per l’annuncio della Parola di Dio. Dal 1999 al 2005 fu rettore della Scuola Apostolica di Albino. Fortemente impegnato nell’evangelizzazione, fu tra i primi a comprendere l’importanza e l’opportunità offerte dai nuovi media: radio, TV e internet. Chi ebbe modo di ascoltarlo a Radio Mater avrà certamente sentito aprirsi il cuore alla gioia perché, partendo dalla Bibbia, egli parlava sempre e solo del Dio Amore, del Dio che non condanna nessuno e che vuole accanto a sé ogni suo figlio. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati profondamente dalla malattia, un vero calvario, accettato con grande coraggio, sempre animato dalla speranza nel Risorto. Padre Lino Pedron è tornato alla casa del Padre il 13 aprile 2010.

Dal 2009 al 2011, padre Fernando Armellini

Biblista Dehoniano, ha conseguito la licenza in Teologia presso la Pontificia Università Urbaniana e in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma. Ha perfezionato gli studi di storia, archeologia biblica e lingua ebraica presso l’Università di Gerusalemme. Per alcuni anni è stato missionario in Mozambico. Attualmente insegna sacra Scrittura, è accreditato conferenziere in Italia e all’estero ed è autore di video e commenti alle Sacre Scritture tramite un proprio sito.

Dal 2012 al 2014, Roberto Seregni

Nato il 09/07/1978 è prete della diocesi di Como. Dopo avere svolto il suo ministero nella comunità di Tirano in Valtellina è ora parroco «fidei donum» nella diocesi di Carabayllo (Perù), nell’estrema periferia nord di Lima, Missione San Pedro. Il suo sito è https://sullatuaparola.wordpress.com/author/robertoseregni/

Dal 2015 al 2017, don Marco Pozza

Originario di Thiene, dove è nato il 21 dicembre 1979, è ordinato sacerdote il 6 giugno 2004. Dal 17 settembre 2011, è cappellano presso il carcere di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova. E’ giornalista e conduttore televisivo (Rai) e tiene conferenze e incontri in tutta Italia, in particolare nelle scuole e nelle parrocchie. L’11 dicembre 2013, sotto la guida del gesuita irlandese padre Michael Paul Gallagher, ha conseguito il dottorato in Teologia Fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Il suo sito è Sulla strada di Emmaus.

Collaborazione di Mons. Antonio Riboldi

In alcune festività sono stati utilizzati i commenti di mons. Antonio Riboldi. Nato a Triuggio il 16 gennaio 1923 e tornato alla Casa del Padre il 10 dicembre 2017 a Stresa. Fu vescovo cattolico italiano, nominato il 25 gennaio 1978 da papa Paolo VI. Fu noto per il suo impegno a favore della legalità e giustizia, sperimentato negli anni del suo ministero pastorale vissuto prima come parroco e poi come vescovo.

Dal dicembre 2017 al 2020, Paolo Curtaz

Nato ad Aosta il 31 luglio 1965, scrittore e teologo italiano. Nel 1995 è stato nominato direttore dell’Ufficio catechistico diocesano, in seguito ha curato il coordinamento della pastorale giovanile cittadina. Dal 1999 al 2007 è stato responsabile dell’Ufficio dei beni culturali ecclesiastici della diocesi di Aosta. Nel 2004, grazie ad un gruppo di amici di Torino, fonda il sito ti racconto la parola che pubblica il commento al vangelo domenicale e le sue conferenze audio. Negli stessi anni conduce la trasmissione radiofonica quotidiana Prima di tutto, per il circuito nazionale Inblu della CEI e collabora alla rivista mensile Parola e Preghiera Edizioni San Paolo, che propone un cammino quotidiano di preghiera per l’uomo contemporaneo. Come giornalista pubblicista ha collaborato con alcune riviste cristiane (Il Nostro Tempo, Famiglia Cristiana, L’Eco di Terrasanta) e con siti di pastorale cattolica. Ha pubblicato diversi libri.

Padre Ermes Ronchi

Padre Ermes Ronchi, nato a Racchiuso di Attimis (Ud) il 16 agosto 1947 è ordinato sacerdote nell’ordine dei Frati dei Servi di Maria. Laureato in Teologia a Roma, ha conseguito il dottorato in Storia delle Religioni, con specializzazione in Antropologia Culturale, all’Università di Parigi-Sorbona e il dottorato in Scienze Religiose all’Institut Catholique di Parigi. Presso il Convento di San Carlo in Milano, dirige il Centro Culturale Corsia dei Servi, fondato da p. David Maria Turoldo,7 la Libreria San Carlo e il Cinecircolo San Carlo. Nel 2007 ha scritto l’introduzione ai Pensieri Mariani di Benedetto XVI; ha redatto i testi di riflessione per la veglia di 500.000 giovani cattolici a Loreto (Agorà dei giovani). È docente di Estetica Teologica e Iconografia presso la Pontificia Facoltà MARIANUM di Roma. Scrittore di temi biblici e spirituali, ha pubblicato diverse opere, collabora, inoltre con diverse testate giornalistiche.

ANNO LITURGICO B

I Domenica Avvento B

Stanchi d’attendere: ci manchi, Signore – Mc 13, 33-37     (Commento di don Marco Pozza)

Chiedilo all’aurora. Lei ti risponderà: “E’ di notte che mi alzo e inizio a spargere la luce”. Chiedilo alla Risurrezione. Lei ti risponderà: “Nella notte di quella Croce ho fatto le prove generali per la mia danza”. Chiedilo alla vittoria. Lei ti risponderà: “Nella notte della sconfitta ho avvertito il sapore della rivincita”. Chiedilo all’amore. Lui ti risponderà: “Nella notte dell’abbandono ho riamato il volto dell’amato”. Chiedilo a Maria. Lei ti risponderà: “Nella notte oscura del Sabato Santo ho avvertito i primi passi del mio Figlio vestito di luce”.   Chiedilo a Lui. Lui ti risponderà: “Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se di sera o a mezzanotte o al canto del gallo o di mattino, perché non giunga all’improvviso, trovandovi addormentati” (Mc 13, 33-37). Di notte – in quel labile spazio che abita tra l’oscurità e la luce – affondano le radici il genio e la santità di Gesù di Nazareth che di notte s’alzava per pregare e caricarsi d’Eterno: perché di notte s’avverte meglio l’urto della secchia nel pozzo, la canzone del fuoco, il tonfo di una mela, le parole cupe sulle soglie, il grido del bimbo. Le cose che non passano mai: quelle di Dio e dei suoi avventurieri. Il popolo di Dio attende per entrare nella Terra Promessa: Mosè attende un cenno nel mezzo del deserto, Maria attende un cenno nell’attesa del Golgota   – “Dimmi, Figlio mio, quanto mi resta da attenderti” -, i discepoli vivono nell’attesa del Regno. Chi attende lo fa per un semplice ammonimento, umano prima che cristiano: “Perché non giunga all’improvviso trovandovi addormentati”. E’ il sonno di chi non spera più, di chi varca la soglia di casa e non avverte più il battito di un’attesa. S’addormenta chi non sa più sognare e immaginare, leggere e rimotivarsi, scrutare l’orizzonte e lasciarsi guardare da un volto. Chi non pensa, non cammina, non s’intestardisce a capire il perché del mondo e della storia. Che non vi trovi addormentati, o al più fuori casa come le vergine rimaste senza olio proprio all’approssimarsi dello Sposo. Non ci perdoneremmo mai d’aver smarrito proprio quell’attimo di Cielo per il quale siamo nati e sotto il quale siamo cresciuti: perché i passi di Dio giungono inaspettati al pari dell’Amore che sorprende, puntuali al pari dell’Amore che ci tiene, esigenti al pari dell’Amore che conosce la sua incontentabile fascinazione. Verrà nelle vesti di un Ladro per strappare dal ventre nostro la disperazione e colmarlo di parole scelte sapientemente, di fiori che somiglino a pensieri, di rose che tengano il lineamento della presenza, di canzoni che facciano danzare gli inferi della notte, di stelle ancora capaci di sussurrare speranzosi spazi di Cielo. Laggiù nel fondo, accavallata tra una grotta e la calotta dell’universo, s’accende il lume di una stella: il sospetto è che anche quest’anno Dio abbia deciso di riscommettere su quell’uomo così denso di mistero e d’attesa da Lui creato. L’attesa che gli chiede è l’altra faccia dell’Amore. Buon avvento: che l’Amore non ci trovi assonnati!

IV Domenica Avvento b

Straripante di Grazia – Lc 1, 26-38     (Commento di don Marco Pozza)

Quella voce era stata simile ad un dolce suono di arpa:  “Ave, Maria, straripante di grazia, il Signore è con te”. C’era profumo di pane e di bucato, in quella casa stavano gli arnesi semplici di tutti i giorni, il lume con la piccola brocca vicino, rami di pesco e rami di pero. C’era il profumo e il sospetto di una giornata qualsiasi in quel mattino a Nazareth. A Maria, anonima donna di periferia,  toccò sperimentare in anteprima ciò che i discepoli sperimenteranno alcuni anni dopo: puoi anche sapere dove incontri Cristo ma non saprai mai dove Lui ti condurrà dopo averlo incontrato. L’unica cosa certa è che quella casa, modesta come chi vi abita, fra poco diventerà troppo piccola per contenere il gaudio di una promessa dilagante – “sarai madre dell’Altissimo” -; di una sorpresa che un piccolo cuore di donna, fosse anche quello della (Ma) donna, non può contenere.L’Eterno scelse la Sua donna proprio nei rioni popolari, nei quartieri bassi, dove i tuguri dei poveri, se rimangono ancora in piedi, è perché si appoggiano a vicenda. L’ha scoperta lì, in mezzo alla gente, e se l’è fatta sua.   “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”:  nessun Giusto non aveva mai goduto di un simile saluto. E’ il più mirabile che non sia mai stato indirizzato dal cielo alla terra: è sbalordimento completo per l’umile fidanzata del carpentiere Giuseppe. Tanto che deve intervenire direttamente il Cielo per reggerla:  “non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio”. Ma come può una ragazza portare il peso di una tale scommessa senza subirne le vertigini? Tra l’altro i conti non Le tornano:  “non conosco uomo. Com’è possibile?”. Ci sono giorni nei quali anche il Cielo prova le vertigini: non ci sta ad essere presa in giro, racconta a quell’Angelo di passaggio la sua fatica d’essere rimasta vergine, l’umile appartenenza al rango dei semplici di cuore. Quest’istante poteva bloccare lo scorrere dell’Eterno nel tempo. Non devono essere stati attimi di serenità per l’Eterno. La prima volta che Maria apre bocca, il Cielo trema: pronuncerà cinque frasi e una canzone (il Magnificat). Tanto basta per aver fatto di Lei la donna più sensuale e sensata della storia. Mi piace pensare che in quell’istante Maria abbia udito salire le suppliche angosciate di un mondo che attendeva quest’ora da millenni. E Lei lì, tutta china nello scrutare questo strano itinerario propostole, a immaginare a fondo, tutti gli obblighi annessi e connessi. “Eccomi, sono la serva del Signore. Sia fatto di me secondo la tua parola“, questa splendida creatura non si è lasciata espropriare della sua libertà neppure dal Creatore. Ma dicendo “eccomi” si è abbandonata a Lui con una libertà così grande che nulla era più scontato che quel sì.

Notte di Natale –  Lc 2, 1-14 Commento di don Roberto Seregni)

Ok, ci siamo: è nato! Pronti o no, desiderosi o indifferenti, sereni o indaffarati, Gesù è nato! Dio è entrato nella storia.
Non potremo più arrabbiarci con Lui, addossargli colpe che non ha e puntare il dito contro il cielo accusandolo d’essere lontano. No, Lui è qui. Lui è presente. Lui è in mezzo a noi.
Mi stupisce e mi affascina questo Dio così innamorato dell’uomo da diventare uno di noi per rivelarsi e farsi conoscere. Dio non ha trovato luogo più affascinate e amabile della nostra carne e ha deciso di abitarla e trasfigurarla. Allora il Natale non è solo una rivelazione su Dio, ma anche sull’uomo e sull’umanità! Devo prendermi cura di me e dei miei fratelli perché, questa carne e questa umanità sono state scelte da Dio fin dall’eternità per essere il luogo della sua rivelazione. Quant’è grande Dio!
Ma questo non basta ancora. La cosa che mi lascia sempre più senza fiato e mi fa annebbiare la vista quando ci penso, è il “come”. Dio decide di farsi uomo e davanti a sé ha un’infinità incalcolabile di possibilità: un paese in pace e con un’economia florida? Una città moderna e attrezzata? Un padre medico e una madre avvocato? Una clinica moderna e un equipe specializzata? Gran risalto su tutti i quotidiani del globo? No, cari amici, niente di tutto questo. Dio sceglie la piccola Maria e il falegname Giuseppe, entrambi esuli per la follia di un imperatore che decide di trascrivere nei suoi cataloghi il popolo di Dio.

Dio sceglie la città di Betlemme, patria del re Davide. Dio sceglie una grotta. È così che l’Eterno entra nella nostra storia. È così che Dio viene ad abitare tra gli uomini. L’immensità che neppure i cieli possono contenere, ora è stretta tra le braccia tremanti di Maria.
Il creatore di tutto quello che abbiamo sotto gli occhi, ha bisogno di una creatura per sopravvivere. Che ne dite? Pazzesco, vero? Sì, Dio è così.
Se vogliamo capire fino in fondo il Natale dobbiamo grattar via tutte le incrostazioni zuccherine e mielose che sono state appiccicate a questa festa. Certo, ci deve essere spazio per la gioia e la dolcezza, ma Natale non è solo questo. Quel cucciolo di Messia abbandonato nell’abbraccio di sua madre nella grotta di Betlemme, dovrebbe farci sussultare sulla sedia e rimanere senza fiato. Tutta questa festa, tutta questa attesa è per Lui! Per quel bimbo infreddolito e indifeso che deve essere nutrito al seno della madre, cambiato, coccolato e curato. Lui è il Festeggiato! Questo è lo scandalo del Natale.
Allora Buon Natale a tutti! A te che lo hai atteso e invocato. A te che proprio non ne vuoi sapere di Dio e di tutte le sue presunte menzogne. A te che lo senti vicino perché come Lui abiti la periferia della storia. A te che hai smesso di mangiare pur d’avere qualcuno che si occupa di te. A te che stai cercando di fare un passo verso di Lui e non riesci a vedere che Lui ne ha già fatti cento verso di te. A te che dopo anni farai Natale senza il tuo amato marito. A te che dopo tanta solitudine hai trovato l’amore. A te che ancora non trovi la forza per guarire. A te che sei sprofondata nel silenzio. A te che finalmente stringi tra le braccia un figlio tanto atteso ed amato.

Sacra Famiglia Le tortore o Dio? Il sacerdote sceglie le tortore (Lc 2, 22-40)      

(Commento di don Marco Pozza) Due tortore per la purificazione, quanto basta perché quel Bambino – quaranta giorni dopo la nascita – “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenga un privilegio l’essere come Dio “ (Fil 2,5-6). Un Dio nascosto, feriale, quotidiano: Nazareno prima che Cristo. Dritti al tempio, forse sull’asinello che era già stato mezzo di trasporto e di salvezza oltre il deserto, nell’Egitto dei profughi. Ieri a Betlemme, prima ancora a Nazareth; poi in Egitto e oggi al Tempio: perché nessuno possa dire d’aver veduto l’Eterno prendere qualche scorciatoia. Un giorno la Legge Lui la porterà a compimento: nel frattempo la rispetta. Come gli altri, dunque: al Tempio, al tavolo, nel retrobottega. Nulla di più: così profondamente uomo che faticheranno ad intravedere l’Avvenire in quegli occhi d’infante che solcano i sentieri della gente comune. Che s’apprestano al Tempio in braccio ad una famiglia di quaggiù. Come un Bambino: Nazareno, per l’appunto. Non ancora il Cristo della Gloria. Così anonimo nazareno che il sacerdote nemmeno lo riconosce. Di professione sacerdotale, attendeva anche lui l’Avvento del Messia: nessun popolo fu mai avvisato tanto e anzitempo come il suo. Eppure prende le colombe e li rimanda a casa. Così, distrattamente obbediente alla legalità di Mosè, rispettoso della legge, finanche osservante della burocrazia del Tempio. Eppur così distratto da non accorgersi che nelle sue mani passava il Messia: l’Atteso, l’Invocato, il Desiderato, ciò che di più soave abitava il suo cuore, stamattina gli era giunto in fronte. Quando lo spirito è assonnato, non basta appartenere alla casta dei sacerdoti: la Salvezza passa e prosegue oltre. Non è osservanza, non è ritualità, non è nemmeno moralismo: è una Presenza. Mite, nascosta, quasi impercettibile agli animi distratti. Nazareno, per l’appunto: non ancora Cristo. Un giorno quello Sconosciuto aggregherà a sé il mondo intero: farà uomini nuovi su scorze vecchie e usurate dai vizi. Scoperchierà tombe e inaugurerà sepolcri vuoti. Darà appuntamento a tanti, a troppi, a tutti. Alla cecità del sacerdote è subentrata la spiritualità del pio Simeone; oltre gli ottanta, sacrestano con la sola voglia di morire. Una vita attenta, non distratta. Nell’attesa del Suo passaggio, della sua Venuta: l’ha cercato dappertutto, spesso e sovente nell’ordinarietà delle piccole cose, dei piccoli incontri. E l’ha trovato: quell’Altro – ancor Bambino – ha mantenuto fede all’appuntamento, s’è fatto stringere come promesso. Simeone s’accorge che è Lui. Stamani al Tempio è festa: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”. Anche al sacerdote la Salvezza s’era rivelata: però stava in tutt’altre faccende affaccendato. Non sapeva che prima d’essere Cristo, quel bambino era Nazareno. Di fronte a Dio, due sguardi si presentano al Tempio: quello di Simeone, vecchio sacrestano col sorriso (la Salvezza ha un Volto) , quello del sacerdote, distratto seppur corretto, uomo di Dio, non s’accorse del Volto di Dio. Quale Dio stava attendendo?

2 Domenica di Natale In un batuffolo di ciccia… – Gv 1, 1-18         (Commento di don Marco Pozza)            

Lei lo guarda, lui lo guarda, loro lo guardano:  “Oh, Signore. Dio mio!”. Con addosso all’espressione povera dei poveri e l’inarrestabile stupore per una bellezza insostenibile. Loro lo guardano, Lui li guarda, è poco più di un batuffolo di carne che strilla al freddo ma negli occhi trattiene qualcosa di fascinoso: un mistero ivi racchiuso, di un indicibile ardito a dirsi. “Prendilo in braccio Giuseppe” – gli sussurra Maria. Il carpentiere è sbigottito, annientato all’idea di poter toccare Iddio:  “mio Dio” – si lascia scivolare dalle labbra mentre, con rispetto, se lo stringe al cuore. Poco più in là Maria cerca panni per farne pannolini: c’è da vestire Iddio prima di depositarlo nel fieno degli umili. Tra le mani, panni di lino e di fasce: li scalda al fuoco e avvolge il Mistero che giace nelle braccia sicure di quel carpentiere dal sangue nobile. Lo toccano, lo stringono, lo avvolgono: è un Dio incredibile solo a dirsi. Ad immaginarsi sembrava già pazzia. A toccarlo si lambisce il confine tra il dicibile e l’indicibile. E’ un Dio imbarazzante:  “dove lo mettiamo ora?” – è la prima preoccupazione di Maria. C’è della legna, Giuseppe se n’accorge e la copre col suo mantello per fare il primo letto del Salvatore. Immaginare Cristo è opera d’artisti e di geni, vedere Iddio è sognare l’inimmaginabile, immaginare e vedere: ma toccare Dio è da batticuore. Perché un Dio che si lascia toccare e baciare, coccolare e cambiare i panni, stringere e sbracciarsi dall’emozione è un Iddio fuori misura, da rossore sulle gote imbianchite dall’attesa. Un Dio sorprendente che s’è fatto attendere a lungo per far divampare il desiderio dell’uomo. E’ il tempo gravido di trepidazione, di tripudio, d’ansia, di speranza e d’improvvisazioni. La casa di Dio è quel grembo vergine di Donna, quell’inspiegabile fiducia di Giuseppe, quell’ardito e ardimentoso sogno di Dio: “Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Si è fatto uomo e si è dato anche un soprannome, proprio come i casati degli uomini di quaggiù: Emmanuele (che significa “Dio è con noi”). Pane e lune, panni e stagioni, vagiti e silenzi, incontri e scontri, Cielo e disperazione: c’è dell’inspiegabile in quello sguardo attonito e divino contornato da quei due, curvi sulla greppia a contemplare quel visetto grosso come un pugno d’uomo. A contemplare Iddio, sorto da un’anonima storia d’amore di periferia. Di Nazareth. C’è odore di gregge appresso la stalla: nel frattempo la storia si agita. C’è musica di cornamuse sullo spiazzo dinnanzi.

C’è la frenesia della festa tutt’intorno: una stella – adombrata nella sua cometa – ha tradito la presenza della Presenza. Fra poco Giuseppe aprirà la porta per quelli di fuori. Chissà cosa diranno: forse se l’aspettavano diverso, più robusto, magari già con la barba addosso. Pazienza, forse è giusto così.

Che a salvare il mondo non fosse la noia prevedibile del potere ma l’ingenua fragilità di un bambino. Aprono la porta: solo luce e silenzio. Le parole inciampano.

2^ Tempo Ordinario – Don Marco Pozza –   Cerchiamo Te, l’Amore – Gv 1, 35-42         

“Ecco l’agnello di Dio!(Gv 1,36), i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù”(Gv 1,37) ”. “Sentendolo parlare così”: chissà di quale gioia vibravano quelle sillabe. Pensa un po’: chi di noi, se un uomo straordinario, capace di leggere dentro ci facesse vergognare di noi stessi, correrebbe a chiamare della gente per portarla da Lui? Ha trasmesso al loro cuore così tanta gioia, passione e raffinatezza che l’aggancio è partito puntuale. Vedendo che lo seguivano, quell’Uomo si voltò e disse: “Che cercate?”. Interrogativo secco e puntuale di un Messia tanto atteso. Sono le prime sillabe che Gesù di Nazareth pronuncia nel vangelo di Giovanni. Con la sua domanda, gentile e rispettosa, Gesù non chiede “chi” ma “che cosa”. Non dunque: “cercate me?”, che sarebbe ovvio. Ma: “che cosa sperate di ottenere seguendomi”. Gesù interroga non per informarsi, perché Egli conosce tutto fin dall’inizio e penetra i cuori. Egli domanda per provocare la risposta, per suscitare una sete, per far esplodere un desiderio! E alla domanda di Gesù che sollecita dei chiarimenti, i due discepoli rispondono con un’altra domanda: “Rabbì, dove abiti?” “Venite e vedrete” (Gv 1,38-39) è la risposta aperta, incerta e affascinante di quell’Uomo uscito da trent’anni di quotidiano vivere a Nazareth. “Verrà un giorno – ebbe a profetizzare uno scrittore francese – in cui gli uomini saranno così stanchi dei loro simili, che basterà loro parlar di Dio per vederli piangere” (L. Bloy).

Gesù di Nazareth non dice che cosa vedranno né quando. Sarà rimanendo con Lui che il futuro si dischiuderà ai loro occhi: “Andarono e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui, erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1,39). “Andarono”. Cioè: s’incamminarono, abbandonarono il certo per l’incerto, si dimostrarono uomini coraggiosi.   Pensa te, si ricordano pure l’ora: le quattro del pomeriggio. Alle quattro del pomeriggio, ognuno ci arrivò con la propria storia. Tutto fu memorizzato perché la loro vita fu trasformata. Troppa gioia dentro quei piccoli cuori, troppo pesante da reggere quello sguardo, troppo grande l’entusiasmo di quell’incontro. Andrea corre da suo fratello, Simone e gli urla: “Abbiamo trovato il Messia”. Reti da riannodare, uncini da rifinire, pesche da effettuare… Anche il mondo di Simone va in tilt, “fissando lo sguardo su di lui disse: Tu sei Simone; figlio di Giovanni. Ti chiamerai Cefa” (Gv 1,42). Quasi a dire: ti conoscevo, ti aspettavo, seguimi! Chissà che occhi possedeva quell’Uomo. Eppure ce lo diranno con una Croce sul capo: Gesù di Nazareth non è per tutti. E’ vero: non ti chiede poco. Tutto sommato non ti chiede nemmeno tanto. Il problema è un altro: quell’Uomo ti chiede tutto. E noi non lo vogliamo capire: ingordi come siamo di miracoli, noi battiamo le mani ogni volta che il paralitico salta in piedi al suo comando, che la donna gobba si raddrizza sotto la curvatura delle sue mani, che il muto parla e la figlia di Giairo si sveglia sul suo letto di morte. Non capiamo che il vero miracolo del Vangelo è un altro: due uomini sani che si alzano in piedi e, senza voltarsi indietro, camminano verso di Lui.

Il miracolo che ancor oggi scandalizza il mondo.

3^ Tempo Ordinario

4^ Tempo Ordinario L’immondo e il Sublime – Mc 1, 21-28 don Marco Pozza

Maledetto Demonio. Nel deserto la voce di Dio è così fragorosa da confondere i sensi. Il profeta abita all’estremo rischio tra il nulla e la salvezza. Il giudizio che Dio riserva a chi rifiuta le parole profetiche è identico a quello di chi rifiuta Dio stesso: “Se qualcuno non ascolterà le sue parole, io gliene domanderò conto”. Oggi la lingua più parlata del mondo è “a vanvera”: ogni giorno miliardi di parole c’investono, ci trafiggono, ci soffocano. Trent’anni fa un giovane usava normalmente 1500 parole: oggi non ne usa più di 600, tutto il resto si basa su luoghi comuni. La Parola di Dio, al contrario, emerge dal silenzio, un silenzio che si percepisce e che pesa, un silenzio che la esalta e la potenzia. La parola, strumento primordiale di cui stentiamo a comprenderne la sua potenza. A Gesù di Nazareth è riuscito a dire il massimo di verità con il minimo di parole. Tutto il Vangelo di Marco, nello stentato greco dell’originale, è composto di 64327 parole che narrano l’inaudito di Dio, il mistero tenuto nascosto per secoli e secoli. Parlava denso l’Uomo di Nazareth perché le sue parole germogliavano da un silenzio profondo, allenato in trent’anni di nascosto apprendistato. Se ho due orecchie e una sola bocca, c’è un perché: devo ascoltare il doppio di quanto parlo. Ecco dove sta nascosta la sorpresa e l’originalità della Parola di Dio: non muore quando è pronunciata, ma proprio in quell’istante inizia a vivere.  Alle sorgenti della creazione Dio disse: “Sia luce! E luce fu” (Gen 1,3). Nella sinagoga di Cafarnao, Gesù di Nazareth ribadisce la validità estrema di quel concetto: “Taci!” – è un ordine che non ammette tentennamenti. Un ordine cui segue un’esecuzione immediata: “Esci da quell’uomo”. E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (Mc 1, 21-28). Quando molti dei discepoli, dopo aver rinfacciato a Gesù che il suo linguaggio era duro, troppo duro, si trassero indietro e lo abbandonarono, il Maestro domandò a Pietro: “Volete andarvene anche voi?”. Rispose il pescatore, a nome di tutti: “Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”.È per questo che rimangono: perché ha parole. Se avesse fatto solo miracoli, non resterebbero. E parole di vita eterna non vuol dire che sono parole che promettono l’eternità, ma parole che danno un senso alla vita. Restano perché parla loro, perché la parola è il più prezioso laccio di comunione tra naufraghi che solo alle parole possono aggrapparsi per sopravvivere e galleggiare. Le parole di quell’Uomo sono già la sponda che li salva. Ci sei? Ce la fai? Sei connesso? “Sono nato sotto una cattiva stella!” – dici tu. Non sei un prodotto astrale – ti ricorda la Bibbia. “Purtroppo sono fatto così! E’ stato più forte di me!” – è la tua scusa. Non sei un prodotto ormonale – ti grida quell’Uomo. “In questa scuola, con questi insegnanti non si può imparare” – è la tua giustificazione alla bocciatura. Non sei un prodotto ambientale, mettitelo in testa. Sei un prodotto personale, Suo. Non basta credere, anche il Demonio crede e teme il Dio che sconquassa le tenebre. Occorre essere suoi discepoli, profeti dell’inaudito e dell’inaspettato, voci scomposte e inarrestabili. Perché profeti della speranza che non muore mai.

5^ Tempo Ordinario

Tutti ti cercano, Maestro! – Mc 1, 29-39 (Commento di don Marco Pozza)        

“Tutti ti cercano” (Mc 1, 29-39). Lui prega colle braccia aperte, sembra benedire il giorno che nasce, l’ansia di Simone non si trattiene. Glielo grida in volto: “Maestro, tutti ti cercano!”. Qualche attimo prima, proprio sull’imbrunire, la suocera di Pietro era stata guarita. Entra Lui e, mentre le donne preparano una zuppa condita di pesce, la rimette in piedi. Uno dei tanti prodigi registrati in quei poco più di mille giorni: gli storpi si raddrizzeranno, i ciechi ci vedranno, le meretrici si convertiranno e le sterili torneranno fertili. Quell’uomo, uscito dal nascondimento di Nazareth, ne guarirà molti ma non li guarirà tutti. Forse voleva che qualcuno diventasse simbolo per tutti gli altri, gli esclusi lasciati nelle loro malattie. Perché sappiano, almeno, non perdere la loro fede, perché sappiano che Cristo vorrebbe anche loro sanati e felici, se fosse sulla terra certamente li toccherebbe. E questo desiderio sia per loro una medicina da spartire: osare di più è ignoranza. So che malattia e salute non sono cosa nostra; che ogni mattina noi possiamo svegliarci, stirare le membra voluttuose e non sappiamo se alzandoci le gambe non ci cadranno di sotto, se andando allo specchio non scopriremmo un male terribile sbocciato nella notte. L’uomo è padrone solo della propria anima, se vuole può salvarla, se non vuole può perderla.   “E’ sperare la cosa difficile – scriveva Charles Pèguy – a voce bassa e vergognosamente. E la cosa facile è disperare ed è la grande tentazione”.

  Alcuni si portano dietro un’immagine di Dio che, di fatto, è superstiziosa. È l’immagine del burattinaio vendicativo che dev’essere assecondato e placato qualora muova un filo sbagliato. Altri se lo raffigurano come un’autorità distante e inaccessibile, completamente discordante con l’amicizia che ci era stata offerta per mezzo di Cristo. È sorprendente il numero di coloro che guardano a Dio come ad una specie d’orologiaio – un Dio che sa spiegare tutto sull’universo, ma perfettamente trascurabile nella vita quotidiana. E vi sono persone che lo conoscono solo come Dio-tappabuchi: di per sé egli non esiste necessariamente, fino a che non c’è bisogno di chiedergli un favore o quando sopravviene una difficoltà.                                                                                 (dalla Lettera dei Vescovi irlandesi – Anno della Gioventù 1985)

“Tutti ti cercano, Maestro”. Immagina la gaiezza di Simone il Pescatore riaccreditato: l’orgoglio d’essere amico intimo del Cercato. “Tutti ti cercano, Signore. Sfrutta la popolarità”: la spensierata ingenuità di chi ha frainteso il cristianesimo con un pugno di gloria. Lui ci riporta coi piedi per terra: “Andiamocene altrove!” – e magari scuote la testa a mo’ di paterno rimprovero. “Come? Proprio adesso, Signore? “Potremmo sempre dire che sei stanco, Maestro!” ”Andiamocene altrove, pescatori!”: servi di tutti e schiavi di nessuno.

Perché all’essere cercati non sempre corrisponde l’essere amati.

6^ Tempo Ordinario

La tenerezza di Gesù – Mc 1, 40-45       (Commento di don Marco Pozza)        

Il Vangelo pullula di lebbrosi, tra i borghi della Palestina, a volte, poteva campeggiare il loro grido: “Allontanatevi, siamo infetti!”. Nessuno si avvicinava loro, la pietà cristiana muore nel raggio di qualche metro dalle loro piaghe. Resta solo Lui, il Vasaio nelle cui mani il fango può ritrovare forma, riacquistare bellezza e definizione, luce e calore. Lui non scappa, non fugge dalle sue responsabilità, s’addentra nel grido di dolore per cercarne l’origine e il battito. E se Lui resta – mentre tutti fuggono – il lebbroso stavolta s’avvicina lui (Mc 1, 40-45), non l’accompagna nessuno.   L’unico caso nel vangelo di Marco in cui un ammalato s’avvicina da solo: con umiltà, con fiducia estrema, con cautela. Non c’è l’astuzia di chi vuol rubare a Gesù l’ennesimo miracolo, l’eloquenza ricca di lamenti del dolore. Allontanato dalla società e divelto nel fisico, gli rimangono due possibilità: il miracolo, il salto nella vita o restare così com’è, con tutto il male ficcato dentro di lui sino all’ultimo giorno della sua vita. “Se tu vuoi, puoi guarirmi”. Lui lo punta dritto negli occhi, sente il cuore che batte, la lebbra pronta a sgretolarsi, il cuore umile che riconosce in Lui l’autore della vita. Gesù lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”.

Tra queste due frasi non si muove foglia, bestie e uomini tacciono. Solo la mano di Cristo s’allunga, compie il breve viaggio entro quella spanna d’aria, scioglie in un abbraccio la paura e la pietà.

In ogni storia c’è il sintomo della lebbra: Satana è sempre al lavoro per degradare la bellezza della Creazione. E’ il macigno della solitudine, della miseria, del menefreghismo, dell’anonimato, della disperazione, del peccato, della mormorazione falsa, della malizia spaventosa.

Macigni enormi messi all’imboccatura dell’anima, che non lasciano filtrare l’ossigeno, che bloccano ogni lama di luce, che impediscono alle parole d’essere feconde. Adesso devono tacere tutti, uomini e bestie, pure il lebbroso deve rientrare in città muto nelle parole e nei gesti.

Cristo impone il silenzio: dalla mansueta tenerezza della guarigione passa con veemenza al fastidio, si scalda, ammonisce, intima di tacere perché la gente sta fraintendendo tutto, ieri come oggi.

L’uomo ai Suoi occhi è sempre un diamante da sgrezzare.E anche Dio ha il suo dilemma da sciogliere: come provare compassione e intervenire senz’apparire quel fantoccio assurdo che troppa gente porta oggi nel cuore?

Mica un problema da poco, sopratutto per uno che si chiama Dio.

1^ domenica di Quaresima Il Tentatore tentato – Mc 1, 12-15 (Commento di don Marco Pozza) Un Uomo arrivato a trent’anni, senza spendere parola alcuna, una sera consegnò l’ultimo lavoro di falegname (chissà se Giuseppe gli avrà dato una piccola provvigione a quel figlio laborioso e mansueto, ndr), posò il mantello da garzone nella bottega di papà e se ne andò. Trent’anni di silenzioso apprendistato: una vita da garzone. A Nazareth, dopo sei lustri d’attesa tutti s’aspettavano un miracolo, un fuorionda o magari l’inatteso di una parabola: invece, tutti delusi oggi, me compreso. Perché il primo passo dell’Uomo Ambizioso è di lasciarsi tentare da Satana (Mc 1,12-15) per essere uomo fino in fondo, per condividere con noi la prima legge di chi nasce uomo che si chiama tentazione. Tentato per smascherare la putrida meschinità del Demonio, dilettante di teologia, psicologo ridicolo, sprovveduto uomo di cavalleria. Forse può dire di conoscere le tecniche migliori per mettere in crisi me, strampalata creatura impastata di fango, ma di fronte a quell’Uomo/Dio impazzisce per lo smarrimento e la stanchezza di un lavoro che si è logorato nel corso dei secoli. Quaranta giorni di deserto, di tentativi falliti, di sconsiderati pensieri nel trarre in inganno la Verità. Poi la resa: completa, misera, tenebrosa. Satana si allontana tra le dune del deserto, gli angeli s’avvicinano a quest’Uomo dichiaratosi Figlio di Dio per servirlo e noi ci accorgiamo che il gioco era stato inventato al contrario.           Perché il Demonio deve essere preso in giro di fronte al palcoscenico della storia. E così a Vangelo chiuso scopriamo ch’è stato Gesù Cristo a tentare Satana: l’ha provocato per fargli capire chi fosse veramente Lui e, Satana – misero dilettante di furbizia – ci è caduto, non ha saputo reggere al gioco, s’è dimostrato perdente. Esce dalle bottega al tramonto del sole e all’aurora si lascia condurre nel deserto tra vocii di belve selvatiche e raucedine di una faccia d’angelo divenuta Lucifero. Altro che quella caricatura di Dio che Satana regala al povero Adamo. Invece c’è la piena tenerezza di Dio nel donare a Adamo tutto il creato mostrandogli anche il cammino da percorrere.

La strada della vita è sconnessa, pericolosa, difficile: Cristo ci mette dei guard rail, delle “barriere protettive”, degli indicatori stradali.

Vedi dove s’incunea quel maledetto avversario: ieri, oggi, domani. Fino all’ultimo istante! Ti fa credere che Dio sia perverso e cattivo, geloso e invidioso, maligno e tremendo. Consegnato l’ultimo lavoro di falegname, ha indossato il vestito dell’uomo ed ha accetto la sfida di battere la testa, nella più umile dimostrazione della “teoria del picchio” che regge le fondamenta del Vangelo e dell’Eternità: “Il picchio deve la sua salvezza al fatto di usare la testa”.

La sfida che è rimasta quella sin dai tempi di Noè, quella di farsi irridere/tentare dal mondo per raccontare la logica di Dio che è sempre un passo oltre, tanto da essere capita sempre un attimo dopo. Povero vecchio diavolo. O povero me.

2^ domenica di Quaresima / b

Bello da impazzire: che pezzo d’uomo! – Mc 9, 2-10 (Commento di don Marco Pozza)

Di una bellezza inconsueta. C’è un’ora nel Vangelo in cui il nostro Amico ci fa il regalo più sorprendente: non è un oggetto, nemmeno un beneficio. Potremmo chiamarla confidenza, ma così totale e profonda che non è solo una parte intima di lui, ma è il suo tutto, l’essenza ultima e trasparente di Se stesso. In quell’ora, infatti, l’Amico si fa per noi di una bellezza insopportabile, si trasforma tutto in un’armonia, ci sorride come non era mai avvenuto e forse basta quel suo splendore, quel farsi trasparente rinunziando alle parole perché dentro il cuore dell’uomo nasca l’impulso di dirgli: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e un per Elia”. A proferire parola è la voce rauca di Pietro, il pescatore di Galilea: parla in nome di Giovanni e di Giacomo, i suoi compagni che hanno goduto quel privilegio. Il privilegio di mostrarsi in quel miracolo di bellezza Gesù di Nazareth lo riserva a quei tre: non li ha scelti in base alla dignità, ma senza calcoli del cuore. Non sono apostoli, sono amici.

Tre uomini, non dodici, devono ricevere quell’anticipazione del Regno, devono sapere come Lui è davvero. Di una bellezza inconsueta. C’è un’ora nel Vangelo in cui il nostro Amico ci fa il regalo più sorprendente: non è un oggetto, nemmeno un beneficio. Potremmo chiamarla confidenza, ma così totale e profonda che non è solo una parte intima di lui, ma è il suo tutto, l’essenza ultima e trasparente di Se stesso. In quell’ora, infatti, l’Amico si fa per noi di una bellezza insopportabile, si trasforma tutto in un’armonia, ci sorride come non era mai avvenuto e forse basta quel suo splendore, quel farsi trasparente rinunziando alle parole perché dentro il cuore dell’uomo nasca l’impulso di dirgli: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e un per Elia”. A proferire parola è la voce rauca di Pietro, il pescatore di Galilea: parla in nome di Giovanni e di Giacomo, i suoi compagni che hanno goduto quel privilegio. Il privilegio di mostrarsi in quel miracolo di bellezza Gesù di Nazareth lo riserva a quei tre: non li ha scelti in base alla dignità, ma senza calcoli del cuore. Non sono apostoli, sono amici.

Tre uomini, non dodici, devono ricevere quell’anticipazione del Regno, devono sapere come Lui è davvero. Di una bellezza inconsueta. C’è un’ora nel Vangelo in cui il nostro Amico ci fa il regalo più sorprendente: non è un oggetto, nemmeno un beneficio. Potremmo chiamarla confidenza, ma così totale e profonda che non è solo una parte intima di lui, ma è il suo tutto, l’essenza ultima e trasparente di Se stesso. In quell’ora, infatti, l’Amico si fa per noi di una bellezza insopportabile, si trasforma tutto in un’armonia, ci sorride come non era mai avvenuto e forse basta quel suo splendore, quel farsi trasparente rinunziando alle parole perché dentro il cuore dell’uomo nasca l’impulso di dirgli: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e un per Elia”. A proferire parola è la voce rauca di Pietro, il pescatore di Galilea: parla in nome di Giovanni e di Giacomo, i suoi compagni che hanno goduto quel privilegio. Il privilegio di mostrarsi in quel miracolo di bellezza Gesù di Nazareth lo riserva a quei tre: non li ha scelti in base alla dignità, ma senza calcoli del cuore. Non sono apostoli, sono amici.

Tre uomini, non dodici, devono ricevere quell’anticipazione del Regno, devono sapere come Lui è davvero. Perché non è uguale come tutti gli altri giorni. Per un istante vuole deporre la sua maschera d’uomo, fare le prove per vedere se la loro amicizia resiste o si traduce in paura. Agli occhi di quei tre beduini che si risvegliano dal sonno in cui la stanchezza della marcia li aveva gettati, quel Gesù smagliante come il principe di una favola non è uno straniero, neppure il personaggio di un sogno che continua.

È finalmente, in tutta la sua credibile naturalezza, il Signore. Quell’ebreo vestito di un povero mantello, stinto dal sole e dalla pioggia, con la faccia sbattuta dalla stanchezza e dai digiuni, ora cancella i dubbi sulla sua figliolanza divina. Nessuna paura, nessun ripudio, figurarsi, e l’anelito di fermarsi in compagnia di quei tre costringe Pietro all’ennesima sparata indisciplinata e fuori luogo: “Maestro, è bello per noi stare qui”. Davvero bello: ha ragione Pietro. “Non sapeva, infatti, che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento”. Una nube li ha avvolti e dentro il buio, una voce è risuonata: “Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo”. “Alzatevi, non temete”. 

   Sul Monte della Trasfigurazione ne fanno le spese Pietro, Giacomo e Giovanni (non gente qualunque ma avvezza all’imprevedibilità del Maestro). Gli manifestano la loro gioia, la bellezza d’essere lassù, la luce di quella presenza, e propongono tre tende da montare e, puntuale, la sferzata di Dio:”Scendete a valle, il vostro posto è là in mezzo a loro!”. In realtà Lui è sincero: promette di esserci. Ma la sua presenza l’avverti solo quando sei per strada. Un Uomo bello: bello da morire. In Croce, per amore dell’uomo.

 

3^ domenica di Quaresima / b

Le delicatezze di Dio – Es 20, 1-17   (Commento di don Marco Pozza)

Sono gli albori della storia sacra e il piccolo popolo scelto da Dio sta movendo i primi passi: occorre, però, organizzargli la speranza. Il libro dell’Esodo pullula di miracoli più d’ogni altro libro in lingua sacra: le dieci catastrofi d’Egitto, il guado asciutto del Mar Rosso, la manna mattutina e altri fenomeni grandiosi sono appena il preludio alla quarantena del gran balbuziente Mosè tra le nuvole del Sinai. Sopra un’altura, il dito divino scalpella il codice. Usciranno scolpiti diciassette versetti noti anche a chi non ha mai tenuto in mano il Libro Sacro. Dieci delicatezze d’amore, forse troppo complicate da ricordare tutte. Gesù Cristo le ha sintetizzate in un’appassionante sintesi: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze. Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,37). Ti sei mai cotto di una ragazza o di un ragazzo? Di’ la verità: non gli avresti tolto neppure un capello se era amore schietto, pulito! Se invece era finto amore, te la mangiavi con gli occhi. Non vedevi l’ora di possederla. Ma quello era amore-bugia. Ti è mai capitato d’incontrarti con una persona bella, schietta, in gamba, tanto da dire: “Ma che forte è quello!”. Ti ha rapito il cuore perché i suoi occhi ti guardano ma ti lasciano libero. La sua mano stringe la tua ma non la trattiene.   Il suo amore ti avvolge, ma non si chiude. Io vedo nella mia vita, pur nella povertà della mia testa, un numero grande di delicatezze di Dio, vedo delle cose troppo belle, per questo faccio degli applausi al Signore che se uno mi vede dice che sono matto. Quando ho scoperto che Cristo è vivo, che io gli sto a cuore e che mi vuol bene fino a maciullarsi su una croce, ho detto: “Questo o è pazzo o non si può buttare via senza prima avergli dato un’occhiata!”. Quando ho visto che non te le manda a dire le cose, ma che è libero, che dice pane al pane e vino al vino, che dice: “Vieni dietro a me, tu starai bene”, ho detto: “Basta, me ne frego di tutto e sto solo con Lui”. Bestemmiarlo? Cancellato. Anzi: mi viene voglia di stare nel difficile, nell’impossibile. Quando vedi che quelli, pur di apparire, vendono tutto, che per far carriera vanno a letto con il primo che passa, ti prende una pena che vorresti gridare: “Stai con Cristo! Metti Cristo nel cuore! E ti scrollerai di dosso tutte queste porcherie”. Ricordati: non esistono lupi cattivi, ma solo lupi infelici. Ecco Cristo che cos’è capace di fare.

Era capitata la stessa cosa ad un gruppo di persone, passa Gesù li guarda e li chiama. Li toglie dal torpore, li lancia su un futuro diverso. Guarda che non sarà una vita facile, ma io ti sosterrò. Ti interessa? Andarono e videro dove abitava…

La gioia dell’intimità con Gesù scatena un tam tam che non si ferma più. Andrea lo dice a Pietro, lo viene a sapere Natanaele, la voce corre per tutta la Palestina e correrà per tutto il mondo senza mai fermarsi. Da allora molti uomini e donne hanno sentito questo invito testimoniato e lo hanno seguito.

4^ domenica di Quaresima / b Il cristianesimo è la più grande “perdita” di tempo Gv 3, 14-21 Commento di don Marco Pozza – “La luce è venuta nel mondo”, – dice Giovanni – ma gli                    uomini hanno preferito le tenebre alla luce”, eppure – ci assicura l’evangelista Giovanni – “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (cfr Gv 3,14-21).

“Tanto”: senti che pesantezza, che nostalgia, che spessore dietro quest’aggettivo. Quasi a dire: ha amato il mondo in maniera esagerata, folle, pazza; ha perso tanto tempo per l’uomo. Un aggettivo che ti rimetta nel cuore voglia di novità. A me sembra un bellissimo complimento: l’augurio di un cuore nuovo. Un cuore come quello di Cristo, che non invecchia mai, che ha sempre il miracolo di un’ultima parola da dirti, fresca come acqua di torrente. Che ti colma la vita senza intasare l’esistenza. “Chiunque fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere”  (Gv 3,20): “Basta un po’ di pentimento e Dio è sempre pronto a perdonare” ma, attenzione, questo non è il peccato dei deboli (che merita sempre il perdono), ma è il peccato dei furbi, che non merita il perdono. Anziché uno stimolo al bene, la fiducia nella fedeltà di Dio si è tramutata in una falsa sicurezza che spinge al male.   E’ una cosa che Dio non può sopportare.

Dio è così costretto a dimostrare che la sua pazienza ha un limite, che il suo perdono non passa sopra alla giustizia. “Chi opera la Verità viene alla luce”: augurio splendido e scomodo per la nostra generazione giovane. Non abbiate paura, non preoccupatevi: con un briciolo di speranza e tanta passione nel cuore rovescerete il mondo degli adulti.

Appassionatevi alla vita. Mordete la vita. Non accantonate i vostri giorni, le vostre ore, i vostri sogni, le vostre tristezze con quegli affidi malinconici ai diari. Amate la bellezza! Coltivate la vostra! Curate la vostra persona, curate la dolcezza del vostro sguardo. Scegliete per la vita! Amate le cose pulite, belle: la poesia, il sogno, la fantasia. Coltivate le amicizie, incontrate la gente.

Il mondo ha bisogno di voi per ribaltare il suo corso. Ha bisogno di giovani critici. Diventate “sovversivi”. Non fidatevi dei cristiani “autentici” che “non” incidono la crosta della civiltà.

Il cristiano autentico è sempre un sovversivo, uno che va contro corrente non per posa ma per convinzione. “Rompete le scatole” – raccomandava don Pino Puglisi ai bambini di Brancaccio-. E lo farai a testa alta se sarai nella Verità.”E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante” – ricorda la volpe al Piccolo Principe -. Dio ha perso tanto tempo per il mondo fino a farlo diventare unico per Lui. Ma tu,  perdi tempo per Dio?

5^ domenica di Quaresima / b Se il chicco di grano non muore – Gv 12, 20-33 (Commento di don Marco Pozza) Forse è successo anche a te di conoscere una persona,            ancora prima di vedere il suo volto, solo perché qualcuno te ne ha parlato in maniera straordinaria.”Vogliamo vedere Gesù” – gridano alcuni greci a Filippo. Immagino con quanta passione, entusiasmo e convinzione quei discepoli abbiano raccontato al mondo l’incredibile incontro con Gesù di Nazareth. Andrea e Filippo, aggrappati alla Speranza sono stati capaci di dimostrare al mondo che è possibile andare avanti e camminare verso il Signore della storia.Bellezza a caro prezzo: “se uno mi vuol servire mi segua”. Innamorarsi di Gesù Cristo come fa’ chi ama perdutamente una persona e attorno a lei raccorda le scelte della sua vita, coltiva gli interessi, adatta i gusti, corregge i difetti, modifica il carattere, trascina nel suo vortice i giorni, le notti, il riposo, il lavoro, la festa, la ferialità, la gioia, il dolore, le delusioni, le speranze. Si: un investimento totale. L’amore per Cristo, se non ha il marchio della totalità, è ambiguo. Il part-time, il servizio ad ore, magari con il compenso per le straordinarie, con Cristo non è ammissibile:  “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane da solo; se invece muore produce molto frutto”. “ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora”  (Gv 12,27). Ha paura Gesù, non vuole morire, ecco perché è un poema d’amore la sua accettazione. Forse anche Lui si sarà ricordato che “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane da solo; se invece muore produce molto frutto”. E’ l’assurda proposta d’amore di Gesù Cristo agli uomini del terzo millennio, per vivere sani in un pianeta di matti. Il nostro è un Dio che sconcerta, che fa marcire i sogni e gli ideali, non allineato con nessuna logica umana. Imprevedibile. Giunta la sua ora, a Pietro, Giacomo e Giovanni rivolge un invito: “Alzatevi, andiamo!”. E noi quest’invito lo avvertiamo soprattutto quando la vita, alla fine, ci conduce a dover intrecciare rapporti con il dolore. Ma perché mai il Signore ti da una croce, poi te la toglie o te l’alleggerisce? “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane da solo”. Alzarsi significa credere che il Signore è venuto sulla terra per aiutarci a vincere la rassegnazione. Ho stampata negli occhi la carezza di una sposa sul volto di suo marito: un amore messo a dura prova negli anni, un male terribile superato, un amore che è dovuto morire per non rimanere solo. Mi è risuonata la splendida promessa del sacramento del matrimonio: “prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”. Coraggio, donna, profetessa di primavera! Perché se demordi da questo compito primordiale, di annunciare la gioia e la speranza alla gente, al mondo non resterà altro che battere i denti. Lassù sulla Croce, tra il diluvio e l’arcobaleno, è piantata la tenda del cristiano, l’unico spazio in cui il Vangelo e i drammi dell’uomo si danno appuntamento per abbracciarsi.                                                                                             Credere è vedere una spiga di grano laddove tutti, vedono un seme marcire.

Domenica delle Palme – Don Marco Pozza   Disgraziato e graziato! – Mc 15, 1-39              

Il “Buon Ladrone” è l’unico santo canonizzato direttamente da Cristo: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso” (cfr Lc 23). I suoi brigantaggi lo avevano portarlo ad essere il compagno di Cristo nel momento finale. A fianco a fianco con Cristo perché è l’unico convinto di morire vicino ad un re. L’altro ladrone bestemmia come quelli sotto. E’ una bestemmia furibonda (“Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi”).Una bestemmia che risveglia la violenza del “buon” ladrone che, in croce, dedica al vecchio complice la sua ultima aggressione: “Neppure tu temi Dio, tu che ti trovi a subire lo stesso supplizio?”. Riconosce che quel crocifisso in mezzo a loro è Cristo. Ma non chiede il miracolo, lui vuole solo fare breccia nella memoria di Cristo: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.     Un gesto incredibile: in un attimo Gesù trasforma la sciagura di un’esistenza, una vita intera giocata in pochi secondi. Troppo comodo? Eppure il Buon Ladrone ha riempito quel pochissimo tempo di cose grandissime. Probabilmente Cristo s’è commosso: perché sulla croce ha ricevuto una splendida adorazione da un brigante incallito. Questo ladrone è un profeta: afferma la regalità di Cristo nel momento dell’abominio, della sconfitta, della derisione dei notabili che stanno sotto la croce. Prima di giudicarlo indegno, dovremmo conoscerlo! Ha confessato le proprie colpe. Ha proclamato innocente Gesù. Ha zittito il compagno burbanzoso. Riconosce Gesù come un re, non durante un miracolo, ma nell’umiliazione e nell’abbandono. Riconosce nella morte l’ingresso nell’Eterno. Merita di accompagnare Cristo nel suo ingresso in Paradiso. Proprio lui. Il fuorilegge, l’escluso. “Signore, ricordati di me, quando sarai entrato nel tuo regno”. Un solo moto di puro amore, e un’intera vita criminale è cancellata. Miseria! Di un sol colpo non solo è assolto, ma innalzato alla gloria dell’altare! Questo primo santo del cristianesimo ha commesso una colpa grave, è condannato e subisce la pena riservata ai briganti: in questo senso il nome di malfattore gli s’addice. Ma al tramonto della sua vita, quest’uomo incontra il sole, la luce che è Cristo: “Oggi sarai con me nel Paradiso”, “prima del tramonto del sole, tu sarai con me nel mio regno”. Questa è la vera Pasqua: passare sotto le macerie del Venerdì Santo, attendere silenziosi tutto il Sabato Santo e uscire dal sepolcro, vestiti di quella bellezza che tanto invade l’animo di tutti i personaggi che oggi nel Vangelo corrono commossi, stupiti, entusiasti. E’ una corsa contro il tempo: occorre annunciare a tutti che la Morte è stata vinta per sempre. Che l’Uomo appeso alla Croce ha vinto la partita della storia.E dopo aver vinto ha festeggiato nel modo più inaspettato: varcando il Cielo a braccetto con un ladrone. Oh, scusate: col primo santo della storia cristiana. Quella che ancor oggi è tacciata d’essere la storia più ambiziosa di tutta la terra.

Domenica di Pasqua b– Grazie, Maria, per averci creduto davvero – Gv 20, 1-9   (Commento di don Marco Pozza) Una notte di luna piena, con la corda di Giuda ancora penzoloni su quel ramo d’albero scelto come porto verso il nulla. Maria, tutti la immaginavano sofferente e rassegnata                 sotto la Croce; pochi avrebbero scommesso che le esili spalle di quell’insopportabile Bellezza di Nazareth avrebbero retto la luce della storia. Era lì sul crepuscolo del giorno, laddove la notte cede il passo all’aurora, a scegliersi la tunica da indossare sulle spalle, i sandali da mettere ai piedi per correre più veloce sull’erba, il filo con cui annodare i lunghi capelli di Nazarena. E contemporaneamente, ripassava in segreto le parole per potergliele dire tutte di un fiato non appena L’avrebbe incrociato il Figlio suo Risorto. Da quella notte le madri, nel mezzo dell’angoscia generale, allenano la voce per intonare i canti e fare le prove generali per la Risurrezione. Di mille accoglienze fu protagonista questa Donna alla quale stamani tutto il mondo le deve il “grazie” più commosso: per averci creduto fino alla fine. I Vangeli – le cui parole vacillano quando il soggetto è Lei – raccontano che a casa di Maria o tra le sue braccia di donna tutti erano a loro agio: dalle vicine di casa alle vecchie compagne di Nazareth. Dai parenti di Giuseppe, agli amici di gioventù di suo figlio. Dai poveri della contrada, ai pellegrini di passaggio. Protagonista di mille accoglienze e di un ritorno che è valso la speranza per tutti, perché le donne custodiscono le porte della natura che fabbrica vita e reclama amore: “Mamma, perché cerchi tra i morti Colui che è vivo?” (Lc 24,5).

Eppure di Lei nessun evangelista aveva osato tratteggiare accenno alcuno: l’avevamo lasciata lassù qualche ora fa’, sotto il peso di quella Croce infame e infamante. Quando compiono gli anni i bambini si augura loro buon compleanno; ma c’è anche chi quel giorno fa gli auguri alla mamma, l’arnese di Dio senza il quale la vita sarebbe rimasta lo scarabocchio ideato in una notte di luna piena. Lui e Lei, la Mamma e il suo Bambino, la Croce e la Gloria.

La loro storia è così semplice da essere diventata così ostica all’intelligenza. Di Lui è rimasta traccia nei Vangeli.  Lui e Lei camminano senza sosta, con cuore di bambino che odora di vento. Il cuore che non fa distinzioni tra il virtuoso e la canaglia, il mendicante e il principe: si rivolgono a tutti con la stessa voce solare, come se non ci fosse né virtuoso, né canaglia, né mendicante, né principe. Ma solo la nostalgia della Vita che risorge. Michelangelo ne tentò l’ardita sfida di scolpirla nel marmo quella storia d’amore. Ciò che gli riuscì fu un capolavoro; ancor poco, però, al cospetto della realtà. “Raccontaci, Maria – s’incuriosisce la liturgia in un’antica sequenza – che hai visto sulla via?” E lei, donna del venerdì santo, dà voce a giorni di partoriente attesa: “La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto. Cristo mia speranza è risorto; e vi precede in Galilea”. La strada è lunga solo per chi non va in fondo ai propri sogni. Buona Pasqua: Cristo è davvero risorto!

2^ Domenica di Pasqua b – Mio Signore e mio Dio! – Gv 20, 19-31
(padre Feranndo Armellini)     “Sei incredulo come Tommaso!” si è soliti dire a chi manifesta qualche diffidenza. Il dubbio di questo apostolo è diventato proverbiale.

Giovanni prende Tommaso come simbolo della difficoltà che ogni discepolo incontra per arrivare a credere.

Ciò che Giovanni vuole insegnare ai cristiani delle sue comunità (e a noi) è che il Risorto possiede una vita che sfugge ai nostri sensi, una vita che non può essere toccata con le mani né vista con gli occhi, può solo essere raggiunta mediante la fede.

Questo vale anche per gli apostoli che pure hanno fatto un’esperienza unica del Risorto. Non si può aver fede in ciò che si è visto. Non si possono avere dimostrazioni, prove scientifiche della risurrezione.

Se qualcuno pretende di vedere, constatare, toccare, deve rinunciare alla fede. Noi diciamo: “Beati coloro che hanno visto”. Per Gesù, invece, beati sono coloro che non hanno visto, non perché a loro costa di più credere e quindi hanno maggiori meriti, sono beati perché la loro fede è più genuina, più pura, anzi, è l’unica fede pura.

Chi vede ha la certezza dell’evidenza, possiede la prova inconfutabile di un fatto.     Tommaso compare altre due volte nel vangelo di Giovanni e non fa mai – diremmo noi – una bella figura. Una prima volta alla morte di Lazzaro quando Gesù decide di andare a Betania, Tommaso pensa che seguire il Maestro significhi perdere la vita.

Non comprende che Gesù è il Signore della vita e, sconsolato e deluso, esclama: “Andiamo anche noi a morire con lui” (Gv 11,16).

Durante l’ultima cena Gesù parla della via che egli sta percorrendo, una via che passa attraverso la morte per introdurre nella vita. Tommaso interviene di nuovo: “Signore non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?” (Gv 14,5). È pieno di perplessità, di esitazioni e di dubbi, non riesce ad accettare ciò che non capisce. Sembra quasi che Giovanni si diverta a tratteggiare in questo modo la figura di Tommaso; ma alla fine gli rende giustizia: mette sulla sua bocca la più alta, la più sublime delle professioni di fede. Nelle sue parole è riflessa la conclusione dell’itinerario di fede dei discepoli. E’ Tommaso a dire l’ultima parola sull’identità di Gesù, lo chiama: mio Signore e mio Dio. Un’espressione che la Bibbia riferisce a JHWH (Sal 35,23). Tommaso è dunque il primo a riconoscere la divinità di Cristo, il primo che arriva a capire cosa intendeva dire Gesù quando affermava: “Io e il Padre siamo uno” (Gv 10,30).                                       La conclusione del brano (vv. 30-31) presenta la ragione per cui Giovanni ha scritto il suo libro: ha raccontato dei “segni” – non tutti, ma quelli sufficienti – per due ragioni: per suscitare o confermare la fede in Cristo e perché, attraverso questa fede, si giunga alla vita.

 

3^ Domenica di Pasqua b

Il prete e il Pane fragrante – Lc 24, 35-48 (Commento di don Marco Pozza)

C’è un albergo lungo la statale che da Gerusalemme s’addentra verso Emmaus: a chi di noi non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto era perduto? Il Cristo era morto in noi. L’avevano preso: il mondo, i filosofi, gli scienziati. Non esisteva più nessun Gesù, per noi, sulla terra. Noi seguivamo una strada e Lui ci veniva a lato. Credevamo d’essere soli, ma non lo eravamo. Era sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità di una sala dove la fiamma di un caminetto fa tremolare le ombre. Quando furono presso il villaggio dov’erano indirizzati, egli fece finta di voler andare più lontano. Ma essi gli fecero forza dicendo: “Rimani con noi, perché si fa tardi e il giorno declina”. Seduto a tavola, spezzò il pane e lo consegnò loro. Allora i loro occhi si aprirono e lo riconobbero. Ma egli sparì da loro e li lasciò avvolti in una profonda nostalgia: “Non bruciava il nostro cuore mentre egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?” (cfr Lc 24,32) Pensa che capolavoro di bellezza, di nostalgia, d’eternità: l’hanno riconosciuto nello spezzare il pane. Solo in quel gesto hanno visto riflessi i lineamenti del loro Gesù. Nemmeno Maria Maddalena, la donna che più di tutte ha inseguito quei passi zingari, l’aveva riconosciuto. Fuori del sepolcro piange e lo confonde con il custode del giardino. Solo quando Gesù le dice: “Maria” si aprono gli occhi e riconosce il suo Messia. E noi pure, qualche volta, l’abbiamo riconosciuto? Perché non vogliamo confessarlo? Ebbene, l’abbiamo riconosciuto nei suoi sacerdoti, assai spesso nei confessionali, è accaduto più di una volta di udire la parola inaspettata, folgorante, di ricevere all’improvviso da uno sconosciuto dolce e umile di cuore, il dono di una carezza profumata di cielo, di una consolazione che non recava firma d’uomo.

Tutto ciò sino a quando le mani d’alcuni uomini eletti innalzeranno l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Questi sono gli uomini che ha creato il Giovedì Santo. Operai di Dio che tra le mani hanno la Scrittura: oceano di poesia e d’eternità che l’uomo è disposto a perdere pur di continuare a dormire.

Ma il cristiano che ignora le Scritture resta privo di un alimento necessario e stupendo “più dolce del miele e di un favo stillante” (Sal 19,11). Oggi c’è crisi d’estasi spirituale, è in calo il fattore sorpresa, non ci sorprendiamo più di nulla. Dovremmo essere meravigliati da Dio. Cristo rivolge anche a noi oggi lo stesso rimprovero indirizzato un giorno ai sadducei: “Voi vi ingannate non conoscendo le Scritture” (Mt 22,29).

E’ necessario ritrovare la forza provocatrice del Vangelo. Se noi credenti non teniamo alte queste attese, le follie e le utopie della Scrittura, la nostra presenza nella Storia è davvero vana. Nemmeno i discepoli d’Emmaus erano riusciti a riconoscere che quel forestiero nascondeva le sembianze di Gesù di Nazareth perché non avevano capito ciò che stava scritto nelle Scritture:

“Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45).

4^ Domenica di Pasqua b

E’ la tua voce: il cuore sta per impazzire – Gv 10, 11-18 (Commento di don Marco Pozza)        

Nato tra i pastori di Betlemme, da grande Gesù corre verso l’acqua e i pescatori. In terra d’Israele puoi anche essere pescatore, ma non puoi scrollarti di dosso l’inseparabile e inconfondibile odore del gregge. “Tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati” (Gv 10, 8).

Assoluto ed esigente questo Gesù. D’altronde era un uomo libero, di una libertà totale. Scendeva nelle strade, nelle piazze, nelle sinagoghe, nel Tempio, nelle case private, incrociava sguardi di prostitute e di briganti, di benestanti e di folli. Non sapeva cosa fossero i complessi! Per questo sbaragliava tutto e andava al sodo, fuggiva i formalismi e le convenzioni sociali. Non guardava in faccia a nessuno, ma parlava con autorità, mosso da estrema libertà.”Le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce”. La voce del pastore garantisce ad ogni pecora del gregge la via per superare la prova. Rapporto di casta intimità (“entra per la porta”), sguardi intrecciati al singolare (“ad una ad una”) messaggi personalizzati (“le chiama per nome”).

Quella voce avrebbe accompagnato il popolo come una colonna di fumo che tratteggia la via, come un mare che si apre alla salvezza, come un tempio che custodisce preghiere.

Dai pastori ai pescatori. Nato pescatore, probabilmente Pietro non era tanto diverso da me, forse nemmeno da te. Impulsivo, testardo, apparentemente sicuro di sé, pieno d’amore a parole per Gesù, ma nell’intimo un insicuro, con la paura di essere sommerso dalle onde e pronto a tradire se la testimonianza gli costasse troppo. Guardalo oggi, in piedi a gridare il suo credo. Sbagliando, ha imparato: “Sulla tua parola getto la mia vita”. Sbagliando, ti capisci! Se uno mi chiedesse: “Descriviti!”, con il sorriso ti direi che sono un incapace ma pronto a tutto, perché consapevole che quanto più ci si abbandona in Dio, tanto più si riesce a migliorare la gente che ci sta attorno.

Perché vivere?” o “Per “Chi” vivere”. Se vivi per qualcosa hai sempre lo sguardo rivolto al tuo ombelico, guardi sempre e solo a te. Se vivi per Qualcuno esci da te, percorri sentieri di novità, che profumano di grandezza. Se poi quel Qualcuno ha la lettera maiuscola, allora: “In bocca al lupo!” Perché quel Qualcuno ti fa uscire dal branco, ti da coraggio per camminare da solo, per camminare contro tutti, per incontrare, incontrare, incontrare. Certo, ci vuole follia, fantasia e…tanta fiducia. Basta pensare a Pietro e ai suoi amici: hanno lavorato tutta la notte, senza prendere neanche un pesce. Gesù dice loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca”. Pietro era stanco, tuttavia rispose con fermezza: “Sulla tua parola getterò la rete”. In altre parole Pietro disse: mi fido di te. Sulla tua parola getto la mia vita”.   A sogno alto, vita alta; a sogno basso, vita meschina.

Eppure nessuno può scegliere la vita al posto nostro.    

5^ Domenica di Pasqua Rimanete in me e io in voi – Gv 15, 1-8 (Commento di don Marco Pozza) – “Rimanete in me e io in voi” – sussurra Gesù sul cuore dei suoi discepoli. Quanta tenerezza, dolcezza, e maternità in quest’espressione. “Rimanere”: ovverosia poggiare il nostro capo sulle sue spalle, stringere forte una mano su un precipizio, agganciare lo sguardo nell’oscurità. Ma perché rimanere in Lui quando tutti ti regalano dubbi sulla sua esistenza? Perché “Senza di me non potete far nulla”. Ma verrebbe da chiederti: “Sei sicuro, Signore?” Qui sembra di respirare solo caligine. Fondi segreti, aste truccate, tangenti sottobanco. Corruzioni di potere, giochi di palazzo. Falsità nelle dichiarazioni dei redditi. Terremoti di scandali, ambiguità bancarie, rapporto predatorio col denaro pubblico. Processi che s’insabbiano, prove che si depistano, concorsi pubblici che si pilotano. Anfetamine che abbattono gli atleti che abbattono i record! “Rimanete in me e io in voi”: “Ma chi sei Tu per chiederci questo?” Viene in mente la battuta di quel missionario il quale, mentre parlava ai negretti seduti sotto un albero della foresta, essendogli capitato di usare nel discorso la parola computer, si sentì chiedere da un bambino cosa fosse il computer. E lui, imbarazzato, gli rispose mostrandogli la matita che aveva in mano. “Te lo spiego subito: vedi questa matita? Il computer è tutta un’altra cosa!”. Appunto, Dio è tutta un’altra cosa. Per fortuna.       Dobbiamo ripeterlo con le labbra danzanti quel versetto del salmo: “Sopra i cieli s’innalza la tua magnificenza”. Solo così saremo afferrati dall’imprevedibilità di Dio. Solo così capiremo le sue inedite trovate. Solo così ci sedurranno le sue sorprese e ci accorgeremo che sono veramente inesauribili le sue risorse sulla novità.”Rimanete in me e io in voi” – per riacquistare lo stupore negli occhi! Gente, non ci sono più stupori nella nostra vita. Non c’è più attesa. La nostra vita scorre come sabbia sulla clessidra, senza brividi. C’è un deficit generale di passione, d’entusiasmo.

Recuperiamo la vita perché questa non è vita! Senza capacità di ribaltare le cose con guizzo profetico non capiremmo mai che l’età più bella della vita è quella che abbiamo! Nella mia testa c’è una convinzione: che quanto più spericolati saranno i nostri abbandoni in Dio, tanto più teneri saranno i suoi abbracci! Lo ha promesso: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”. Desideri conoscere l’imprevedibilità di Dio? Guardati attorno e vedrai, grazie al cielo, i frutti di questa follia del Signore. Perché Filippo e Federica hanno lasciato il posto in ospedale e sono partiti volontari in Etiopia con la loro bambina? Perché Giulia, la seduzione fatta carne, dopo la scuola superiore è entrata come novizia in un monastero di clausura? Perché quella coppia, come se non bastassero i figli e i problemi che già aveva, si è avventurata in una rischiosa operazione di affidamento? Perché Rita perdona gli uccisori di suo fratello Paolo? Perché Luca da tredici anni continua ad accarezzare la sua giovane moglie ridotta allo stato vegetale?

Valla a trovare la logica.    

6^ Domenica di Pasqua Capaci di infiammarsi – Gv 15, 9-17 (Commento di don Marco Pozza)

Il cenacolo, da rifugio contro la paura, diventa la base di una squadra di gente pazza che comincia a disturbare la quiete del mondo. D’altronde il Maestro li aveva scelti proprio per questo e, guarda caso, tutta gente strana. La normalità non l’ha mai incantato più di tanto. Lui voleva gente infuocata, aveva bisogno di persone capaci di infiammarsi per un ideale, di ardere a causa della passione. Aveva bisogno di amici: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (v. 16). Pretendeva degli innamorati: di Lui, del suo sogno di rovesciare il mondo, della sua smisurata voglia d’amare. Voleva gente disposta a perdere la testa, a rischiare il cuore, la faccia. Forse la vita.

Gerusalemme è la base di partenza, il mondo diventa il loro campo di battaglia, i confini della terra il limite da raggiungere. Partono infuocati, disposti a pagare il prezzo della solitudine, del disprezzo, dell’abbandono e della derisione.

In un’epoca in cui si predicava la normalità a tutti i costi – dopo tre anni di scombussolamento generale – pure loro erano normali. Ma la normalità del Vangelo è una logica che sfiora la follia: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la sua vita per i propri amici” (v. 13).

Il Maestro non aveva stabilito una misura, se non la sua: “Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (v. 17).

Gesù rimanendo in mezzo a loro, s’è accorto che l’uomo non può vivere senza qualcuno vicino, che l’incoraggi, lo faccia sentire prezioso, l’accompagni.

Anche Lui si era scelto non uno ma dodici! Scelti “perché stessero con lui” (Mc 3,14). Prima vive assieme, poi li manda nel mondo. Non terranno né borsa, né bisaccia, né sandali. Ma un amico sì! Senza cose: ma non senza amici. A due a due busseranno alle porte del mondo.

Quante rassicurazioni perché non abbiamo a demoralizzarci! Sembra quasi che nemmeno Lui riesca a fare a meno di noi. Sembra che voglia trovare un modo per tornare Lassù pur rimanendo assieme a loro. Di partire…restando. Di abbracciare il Padre con una mano e con l’altra stringere il loro petto.

“Sono troppo stanco. Depresso. Confuso. Nessuno mi capisce. Nessuno mi vuole bene. Tutti l’hanno con me! Figurati se me ne va bene una. Lui sì che è intelligente. Lei sì che è bella. Non ne sono capace. Non ci provo nemmeno. Non ci riuscirò mai. Tanto non serve a niente! Ma poi: cosa dirà la gente? E’ tutta colpa vostra! Ah, se avessi. Se fossi. Se diventassi. Sarebbe terribile. Se mi capita, mi sparo”.

Mi son chiesto: se i primi cristiani avessero ragionato così, dove sarebbero arrivati a predicare il Vangelo?

 

Ascensione

Il naso all’insù, i piedi all’ingiù – Mc 16, 15-20   (Commento di don Marco Pozza)

Durante l’Ascensione, Gesù gettò un’occhiata verso la terra che piombava nell’oscurità. Soltanto alcune piccole luci brillavano timidamente sulla città di Gerusalemme.

L’arcangelo Gabriele, che era venuto ad accogliere Gesù, gli domandò: “Signore, che cosa sono quelle piccole luci?”. “Sono i miei discepoli in preghiera, radunati intorno a mia madre. Appena rientrato in cielo, invierò loro il mio Spirito, perché quelle fiaccole tremolanti diventino un incendio sempre più vivo che infiammi d’amore, poco a poco, tutti i popoli della terra!”. L’Arcangelo Gabriele osò replicare: “E che farai, Signore, se questo piano non riesce?”. Dopo un istante di silenzio, il Signore gli rispose dolcemente: “Ma io non ho un altro piano”.

Secondo te, è un momento bello o triste? Dipende da come la guardi quest’ora. Guarda che assurdità: quest’ora sembra essere più triste addirittura dell’ora della morte. Perché almeno la croce lasciava un cadavere da imbalsamare di lacrime e di unguenti, da visitare con fiori e lanterne. Illogico l’uomo, se veramente un sepolcro in terra può dar maggior conforto che un punto irraggiungibile in cielo che ti parla di speranza. Ma se di un balzo quest’Uomo abbandona la terra nel pieno della sua giovinezza e della sua mirabile vittoria, è solo per gridarci che anche noi siamo destinati alla residenza eterna.

Ma che difficile capire. Noi, armati di cultura e di letteratura, capiamo solo che Lui era tra noi e adesso non c’è più, che potevamo toccarlo e adesso No. Il difficile del nostro vivere comincia da questo momento con il cuore turbato in un assurdo rimorso. Senza più avere quel Maestro, geniale e imprevedibile, noi vorremmo fermarci lassù migliaia di anni perché c’è stato detto che Lui verrà precisamente alla stessa maniera. Ma non sarà possibile, non lo è stato nemmeno per i discepoli: hanno dovuto obbedire, sono stati costretti a scendere assieme agli altri. Con un invito accorato da parte di due uomini in bianche vesti per non dare al Maestro l’ennesima impressione di non aver capito nulla: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”

Egli torna al Padre, sai cosa significa? Che quelli che stiamo percorrendo non sono sentieri interrotti. Che la nostra vita non è sospesa sul vuoto. Che quel Dio che senti tremendamente lontano si è fatto inquilino di quell’appartamento privatissimo che si chiama “persona umana”. Sicché il suo indirizzo provvisorio porta i connotati di ciascuno di noi: di me, don Marco, di te, di Andrea, di Angela, di Paolo… E chi vuol adorarlo non lo deve cercare nei quartieri residenziali del cielo, ma negli occhi della gente.

Allora capiremo che questo è stato tutto un gioco per farci innamorare ancor di più di quell’Uomo. Allora capiremo che ha fatto finta d’andarsene.

Lo capiremo da questo: non avremo più paura.

 

Pentecoste Un dono esagerato – Gv 15, 26-27; 16, 12-15 (Commento di don Marco Pozza)                

Dopo l’Ascensione, gli apostoli se ne stavano con il naso all’insù e in silenzio. Un po’ esterrefatti e un po’ rammaricati. Tornavano al cenacolo, a nascondersi “per timore dei Giudei”: “E adesso che facciamo?”

A Gerusalemme nessuno si aspettava più nulla da loro rimasti senza capo. Il potere era riuscito a riportare l’ordine dopo gli sconquassamenti perpetrati da quel guastafeste della Galilea. La lezione della Croce doveva servire da ricordo a qualcuno che nutrisse ancora idee bizzarre, ma avevano fatto male i conti, come spesso capita anche a noi nella vita!

Peccato non avessero messo in conto – discepoli, avversari e studiosi – il dono dello Spirito Santo! Nell’Ascensione, Gesù, portando per la prima volta l’umanità lassù, volle fare al Padre la presentazione ufficiale della “sposa”. Il Padre, rimasto felicissimo per la scelta del Figlio, volle fargli subito un dono esagerato per le nozze. D’accordo con lui, ha inviato sulla terra il suo Santo Spirito con il compito di render ancor più bella e attraente la sposa. Lei è splendida ma porta tante macchie sul volto, molte rughe sulla fronte, parecchi graffi sul corpo… lo Spirito Santo non ama le rughe.

C’è un inno i cui rintocchi fanno vibrare il cuore:”Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la faccia della terra”.

Rinnovare la faccia: in altre parole togliere le rughe, pulire i lineamenti, far splendere la bellezza originale.

Il vangelo è meraviglioso nei suoi rintocchi, tremendo nei richiami, fantastico nella precisione. Alla fine dell’avventura terrena di Gesù, gli apostoli sono creduti vinti, schiacciati, umiliati. I Farisei stanno già brindando quando s’accorgono di non aver calcolato l’ultimo personaggio: lo Spirito Santo. Rimangono sbigottiti.

C’è un “fuori programma”: un’immagine di Chiesa celeste, non invitata, coglie tutti di sorpresa e impreparati. E’ difficile rendersi conto di quello che sta succedendo, impossibile prevedere le conseguenze. E’ una chiesa che mette in imbarazzo, turba e scuote. La Pentecoste: ovvero la cronaca di un incidente “non annunciato” e, dall’incidente, non estraggono un cadavere annerito di chiesa. Tutt’altro. Dalle macerie causate dallo scontro con lo Spirito Celeste nasce la Chiesa che non t’aspetteresti: una chiesa che si fa capire, inspiegabile, incontrollabile. Una chiesa che, se fosse sempre quella, ti lascerebbe una domanda: “Ma cosa sta succedendo?”.

Una Chiesa preoccupata delle cose di Dio e zelante in quelle degli uomini. E’ la chiesa degli apostoli! Sfuggente, impensabile, imprevedibile. fortissima, travolgente, impetuosa, appassionante, irresistibile. Innamorata e indomita.

Come stanno cambiando i tempi…

Corpus Domini   Il Pane vivo – Mc 14, 12-16.22-26 (Commento di don Marco Pozza)

Tutto era pronto, le virtù private e pubbliche stavano per culminare nel sacrificio supremo, ma nella fantasia di Gesù mancava un gesto umano, troppo umano, e, per questo, tremendamente divino: il suo testamento. Il Figlio dell’Uomo era lì, al centro della tavola e, per la prima volta, sulla faccia della terra si stava compiendo un prodigio: possedere la persona che si ama, incunearsi dentro di lei, diventare un tutt’uno con il desiderio d’amore. E’ dalle parole pronunciate da Gesù, subito dopo, che noi possiamo misurare l’amore che traboccava nei discepoli – impauriti e innamorati allo stesso tempo – poiché li chiama “figlioli” pur essendo uomini rudi e nel vigore della loro età. “Prendete, questo è il mio corpo”, “Prendete, questo è il mio sangue”. Mai aveva parlato loro come in quella notte. Essi intuiscono che il loro amico è Dio e che Dio è amore. M’incuriosisce la domenica scavare nei volti di chi s’accosta all’Eucaristia: timore e confidenza, abbandono e rimorso, vergogna e amore. La piccola Ostia spande una luce sulle azioni irreparabilmente compiute dal peccatore che si accosta. Nessuno può dire di conoscere se stesso se non filtra i suoi lineamenti alla luce di quel pane consacrato. L’eucaristia! L’emozione di un Dio che ti raggiunge come sei: peccatore e schiavo, splendido e irriverente, stupito o ignavo. Non importa: Cristo entra! A volte sento le mani tremare nell’atto della consacrazione: il gesto massimo del sacerdote.   Senti sulle spalle incurvate il peso del divino, la tenerezza della tua debolezza d’uomo, la potenza di un mistero inafferrabile, che ti rapisce liberandoti.

Nelle tue mani sporche, il Corpus Domini. “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51). Peccato che spesso riceviamo questo pane con leggerezza, abitudine e senza la piena consapevolezza: qualcuno balbetta un amen “in calare”, qualcuno lo imbocca come una caramella…

Qualcuno ci crede davvero e, quasi, lo vedi piangere. Ma ci pensi che tutti i delitti che porti nel tuo cuore, nel momento in cui abbracci quell’Ostia, non sono più tuoi? Un Altro li ha fatti suoi dopo che il suo perdono è sceso nell’anima?

Ma se mancano coloro che annunciano il miracolo dell’Eucaristia, come crederanno? Servono veri e propri evangelizzatori di strada: persone capaci di rincorrere, affiancare, accogliere. Crediamo che anche un giovane punk possa diventare santo. Le nostre debolezze gli riveleranno quel Gesù che solo lo salverà. Forse avete avuto anche voi la terribile tentazione, qualche volta, di volervi avvicinare ad un gruppo di giovani sui motorini davanti alle nostre chiese, per annunciare loro che la cosa più bella che possa capitare ad un uomo è l’aver conosciuto Gesù di Nazareth e che con Lui la vita è tutta un’altra cosa. Quanto si perdono, senza di Lui! Ma quanta paura! E poi, che cosa dire? Mi accetteranno? Chi sono io per dire loro qualcosa?
Perché non provi prima di darti per vinto?

 

X Domenica T. Ordinario

XI   Domenica T. Ordinario Dio esiste, ma non sei tu: rilassati – Mc 4, 26-34

(Commento di don Marco Pozza) Quella di Gesù è rimasta nei secoli la religione della Parola. Egli usa i gigli del campo e il granello di senapa, il gregge e il pastore, la massaia e la cercatrice di perle, il serpente e il tozzo di pane, il granchio e i fanciulli che suonano il flauto.    

Per mille e più giorni Egli scelse di parlare in parabole, ignorando quello dei rabbini, che conosceva benissimo, s’aggrappò al linguaggio ingenuo dei bambini per assicurarci da quel giorno che la storia non è un insieme d’inutili sussulti.   

Noi non stiamo percorrendo sentieri interrotti, la nostra vita non è sospesa sul vuoto. Quel Dio che senti tremendamente lontano si è fatto presente nell’intimo più profondo dell’uomo. Un Dio cantastorie che, con le parole, inquieta, interroga, stupisce e impensierisce. Le sue sono storie luminose, racconti che svelano, bozzetti di vita quotidiana che accendono il desiderio dell’Eterno: rimarranno oscure solamente per coloro che terranno la distrazione nello sguardo e il cuore appesantito.   

Già gli antichi rammentavano che, quando il dito indica la luna, soltanto l’imbecille guarda il dito:“De te fabula narratur” (“è di te che si parla in questo racconto”) è la scritta che campeggiava in calce ai loro racconti e favole.

E’ di te che si parla in questa parabola. Per chi guarda da fuori, la Grazia non è facile da capire, eppure il Regno di Dio è già dentro la storia, è un germe che misteriosamente si fa strada, cresce, nonostante l’uomo dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce, come, egli stesso non lo sa.

Nel grembo della storia giace la semente della bellezza, non sono gli uomini a realizzare il Regno ma è Dio che libera la sua creatura da un affanno pesantissimo, a lei spetta solamente l’annuncio e, quando sarà ora, la raccolta.

Come metafora di un sogno è il Regno di Dio: nascosto, silenzioso, fanciullesco e divino lentamente cresce, germoglia e s’accende.  Perché Dio esiste: e questo ci basta per far impazzire il cuore. Esiste ma non sei tu: e questo ci basta per rilassarci e sentirci meno Dio. Perché nessuno riuscirà mai a spiegare come mai in un mondo in cui l’uomo sogna di diventare Dio, ci sia stato un Dio che un giorno abbia sognato di diventare uomo.

Non per nulla questa storia – accesa sul ciglio delle labbra di un Rabbì Nazareno – è tacciata ancor oggi d’essere la storia più ambiziosa della terra. Una storia raccontata in parabole di sementi e di fiori che sbocciano.

Una storia a colori.

 

XII   Domenica T. Ordinario – Non avete ancora fede? – Mc 4, 35-41

Commento tratto dal sito http://www.lachiesa.it/ In questo brano di Marco, tutto è volto a descrivere la situazione dell’umanità, nella sua lenta storia, e tutto mira ad annunciare il piano divino che il Figlio di Dio vuole realizzare.

È venuta la sera: la notte della paura e del dubbio; la fine del giorno e delle sue effimere certezze. Gesù invita la sua Chiesa a prendere il largo e a “passare” all’altra riva.

Si tratta di un invito alla Pasqua che è un “passaggio”: quello del mar Rosso per il popolo eletto, liberato dalla schiavitù e condotto alla libertà; passaggio dalla morte per il Figlio dell’uomo liberato dal peccato e condotto alla gloria.

L’altra riva è quella di Dio, che non si vede e di cui Gesù rivela il cammino (Gv 14,4).

La barca che attraversa il lago con i discepoli e Gesù è la Chiesa. Come l’arca di Noè, essa è stata costruita proprio per “passare”. Ma scoppia una tempesta. Le forze del male si scatenano contro di essa. La barca si riempie d’acqua, qui simbolo di morte che toglie il respiro all’uomo. Il male lotta contro lo Spirito. E Gesù dorme.

L’assenza di Gesù pesa enormemente sul cuore dei fedeli: non vedendo Gesù, hanno paura e giungono persino a pensare che non sarebbero mai riusciti a compiere la traversata e che non avrebbero mai dovuto prendere il largo su quella barca.

Ma la preghiera insistente dei fedeli, che lo chiamano, è sentita da Gesù. Si sveglia. Egli è là, come ha promesso (Mt 28,20).

Gesù salva la sua Chiesa da tutte le tempeste che minacciano di farla affondare. Gesù non rimprovera gli apostoli per non averlo svegliato subito, ma biasima invece la loro mancanza di fede.

Bisogna pregarlo, e pregarlo con fede. La paura di morire, che è negativa, viene allora sostituita dal timore di Dio, che è l’obbedienza dei fedeli al loro Salvatore.

Questa è la nostra situazione: la debolezza della nostra imbarcazione trae forza dalla presenza di Cristo: egli ci fa passare.    

Ci sono momenti nella vita in cui abbiamo l’impressione di affondare, travolti dal dolore o dai nostri sbagli, quando arriva un dolore più forte, una prova insostenibile, malgrado tutti i nostri sforzi, magari sinceri. Succede così anche agli apostoli: al discepolo il dolore non viene evitato.   

Rendi salda, o Signore, la fede del popolo cristiano, perché non ci esaltiamo nel successo, non ci abbattiamo nelle tempeste, ma in ogni evento riconosciamo che tu sei presente e ci accompagni nel cammino della storia.


XIII Domenica T. Ordinario Medico delle anime e dei corpi – Mc 5, 21-43

(Commento di don Marco Pozza) – Un tale di nome Giairo cammina tra la folla: “Fate largo, fate largo!” e si inginocchia davanti all’Uomo della Vita. “Maestro, la mia bambina è malata, vieni…” “Non piangere, la tua bambina vivrà, andiamo da lei”

L’Autore della Vita cammina nel mezzo della bolgia della folla tra urla e grida di coloro che cercano disperatamente ragioni di vita. Improvvisamente Gesù si volta: “Chi ha toccato il mio mantello?” poi guarda dall’alto in basso, scruta la folla, il suo sguardo ha lampi di maestà e si posa su una donna poveramente vestita, sciupata nel volto e miseramente intrufolatasi nell’anonimato della folla.

Una donna invecchiata anzitempo, le sarebbe bastato toccare il lembo del mantello per sentirsi rilanciata nella Vita; gli occhi di Gesù e degli altri le bruciano addosso e le impediscono di fuggire ma si fa avanti e gli risponde, parla senza parlare, dolcissime parole affidate all’ebbrezza dello sguardo, e Lui a lei: “Va’ in pace, figlia, la tua fede ti ha salvato. Sii guarita per sempre. Sii buona e felice. Va!”. Lo guardano imbarazzati: a toccarlo è stata una misera donna e Lui si lascia toccare da Lei.   Come un giorno si lascerà toccare da mille altre donne accorse al capezzale del suo Regno perché in quell’Uomo alberga la forza della Vita. Lui è pur sempre Creatore e mai si sentì che fuggì dalle sue responsabilità.

All’artigiano, meglio se artista, rimarrà sempre nel cuore il destino della sua creatura. Del suo capolavoro. Lui, amante della vita e nemico dichiarato della morte.

Ancor oggi, invece, Lui rimane là: sulla strada, impolverato come i suoi amici, a tradurre urla e stringere mani. “Che tu sia benedetto in eterno, Maestro”.   Dopo di lei, la figlia di Giairo: “Ti ripeto, abbi fede, non temere. La tua bambina vivrà”.

E la vita continua; rigorosamente sulla strada.

Perché ancor oggi, chi di Lui ha la fortuna di contemplarne lo sguardo in visione, racconta la dolcezza di un Uomo mai dimèntico della vita di quaggiù. Perché l’uomo, l’obbrobrio della storia, è ancor oggi la sua scommessa più azzardata.

“Che tu sia benedetto in eterno, Maestro”.

 

XIV   Domenica T. Ordinario     O Dio, mandaci dei folli. – Mc 6, 1-6 (don Marco Pozza)

Nella sinagoga di Nazareth, nell’udire parlare Gesù, tutti i presenti “furono meravigliati dalle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, fino a renderne testimonianza (Lc 4,22). Sul momento ne rimasero affascinati, sedotti, catturati, ma un attimo dopo l’ammirazione si trasformò in odio feroce. “Come si permetteva Lui, semplice figlio del falegname del paese, di parlare in quel modo? Quell’Uomo, che avevano visto giocare da bambino insieme ai loro figli?” Nessuno è profeta in patria: questo è risaputo da tutti, ma Gesù, forse, si aspettava dai suoi compaesani uno strappo alla regola ovvero un’eccezione che la confermasse.   Strada facendo, invece, si accorgerà che i nemici sono proprio lì, “tra i parenti, in casa sua e si meraviglierà della loro incredulità” (Lc 6,4-6).   L’evangelista Luca descrive bene la rabbia scoppiata nel cuore dei suoi paesani: “Lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte per gettarlo giù dal precipizio”. Insomma, volevano ammazzarlo, tutti insieme, a denti stretti, compatti. Perché? Perché la santità, quando è pura, diventa “segno di contraddizione”, svela i pensieri dei cuori e, perciò, scandalizza, fino a diventare mortale. Soprattutto se c’è una folla unanime disposta a scagliarsi contro di lui.      

I suoi paesani per credere alla divinità di Gesù avrebbero forse voluto un miracolo, un’emozione, una magia, come a Cafarnao!

Essi erano “raccomandati”, paesani di Gesù figlio di Giuseppe! Ma dei miracoli Cristo fu nemico e questi furono tutti strappati alla sua pietà, carpiti alla sua condiscendenza, persino rubati con l’astuzia.

Noi sappiamo che i veri miracoli non consistevano nel cieco che apre gli occhi, nello storpio che getta le crucce, o nel morto che risuscita ma nella fede che aveva suscitato tali eventi e nelle conseguenze che la fede stessa produceva.

A Nazareth Gesù non compì alcun miracolo perché mancava la fede che impediva di accogliere la sua Parola! Essi “furono pieni di sdegno, si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte per gettarlo giù dal precipizio”.

O Dio, mandaci dei folli, che s’impegnino a fondo, che dimentichino, che amino non soltanto a parole, che si donino per davvero sino alla fine. Abbiamo bisogno di folli, d’irragionevoli, d’appassionati, capaci di tuffarsi nell’insicurezza dell’ignoto spalancato della povertà. Abbiamo bisogno dei folli del presente, innamorati della semplicità, amanti della pace, liberi dal compromesso, decisi a non tradire mai, obbedienti e insieme spontanei e tenaci, forti e dolci.

O Dio, mandaci dei folli.

 

XV   Domenica T. Ordinario

Eccoci, tu e io, e spero che, fra noi, Cristo sia il terzo” – Mc 6, 7-13 (Commento di don Marco Pozza)  “Ho bisogno di parlarvi, è giunto il tempo, alzatevi, andiamo, amici” è l’invito di Gesù ai suoi discepoli.

Simile ad un re che ha deciso la conquista del regno: prima indaga e avvicina le persone per conoscerne il pensiero – “chi dice la gente, e voi, che io sia?” -, poi per rielaborare le impressioni ed estendere l’opera a uomini fidati per portarla in tutto il regno.

Andare, conquistare, tornare a Lui: la strategia di tutti i grandi della Storia.

Gesù li guarda uno ad uno ed è come guardare la stessa pagina per dodici volte e vederci sempre la medesima scritta: incomprensione.

Sorride e prosegue. ”Andate e predicate che il Regno dei Cieli è vicino”. 

   Affinché possano essere creduti e accolti, Gesù concede agli apostoli il dono del miracolo: “scacciavano molti demoni, ungevano con olio gli infermi e li guarivano”.  Senza pane, senza bisaccia e senza monete nella cintura: solo con un pugno di parole nella gola da trattenere e da far uscire al momento opportuno. Le città li dovranno accogliere non perché sono Simone, o Giuda, o Bartolomeo, o Giacomo, o Giovanni o così via ma perché sono i messaggeri del Signore.

Cercheranno famiglia dove abitare e laddove non li ascolteranno di loro rimarrà la polvere sbattuta dai calzari. Li cacceranno e li derideranno, li inseguiranno e li offenderanno; e loro dovranno rispondere con la predica più bella, col silenzio mansueto di chi non è ingenuo da non capire né arrogante da sopraffare. Un giorno quegli stessi avversari li cercheranno perché al Trafitto volgeranno lo sguardo: “Vi abbiamo cercato perché il vostro modo di fare ci ha persuasi della Verità che annunciate”.

Ieri loro, oggi la Chiesa. Predicheranno a tutti, nessuno escluso. I discepoli come messaggeri di Dio dentro la Storia. La Grazia li renderà aggraziati e loro racconteranno di Lui quando non ci sarà più nessuna storia da raccontare. Con un’avvertenza non trascurabile: non terranno né borsa, né bisaccia, né sandali. Ma un amico sì! Senza cose: ma non senza amici.

A due a due busseranno alle porte del mondo. Perché quando l’uomo avrà fame un tozzo di pane lo raccatterà; quando l’uomo sarà stanco potrà trovare una spalla alla quale aggrapparsi.

 

XVI   Domenica T. Ordinario Chiesa, dove sei? Cristo ti sta cercando – Mc 6, 30-34 (don Marco Pozza)  “Come pecore senza pastore” e pure sfinite…

Gli apostoli, partiti senza bisaccia né bastone ma solo con un amico per compagno, raccontano al Rabbì l’accaduto, i miracoli accorsi lungo le strade di Palestina, i barlumi di Regno organizzati nelle fessure della vita quotidiana.

Gesù li rincuora, li ascolta, li obbliga al riposo: “Venite in disparte voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un pò.” Non avevano nemmeno il tempo di mangiare, la gente li cercava, li inseguiva ovunque. Gesù li ammaestra, li fa sedere alla sua amabile presenza e li rincuora.

Si commuove della loro spossatezza e s’accorge che il gregge è rimasto orfano dei pastori e nota subito, per quella capacità inimitabile di leggere le sfumature sul volto di ognuno, che non esiste la folla per Lui, esiste la creatura uscita dalle sue mani, quell’unico e irripetibile mistero di tenerezza. S’accorge che sono senza pastori… Anche oggi, nella Chiesa, mancano i pastori… ci sono ma forse non svolgono bene il loro compito. Si da più importanza a rigide regole che alla creatività. Al bastone dell’autorità che all’autorevolezza.

Alla tradizione e al servilismo dell’obbedienza che alla novità suscitata dallo Spirito. Al “si è sempre fatto così” che a “tentare di prendere il largo”. La stanchezza prevale sulla fantasia?

Il management sulla pastorale? L’abitudine sulla passione? Il rattoppo sul ricamo? Non mancano i funzionari, ce ne sono sin troppi: manca la passione del pastore. E il gregge l’avverte. Si disinnamora, si sfiducia, si dimette. Impazzisce e sogna di diventare lui pastore: s’appropria del bastone, imita la voce, s’accolla la responsabilità della distruzione. E così nasce un gregge di pastori senza pecore.

“Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore” (Ger 23,1-6). Ovvero guai a coloro che giocheranno al cristianesimo. Perché se le pecore sono sfinite e senza pastore, forse è anche perché sono subentrati altri interessi che non sono in sintonia col Vangelo. Quello che s’è udito agli orecchi, il Vangelo comanda di annunciarlo sopra i tetti, perché tutti lo ascoltino. Dai tetti in su. Ma anche dai tetti in giù: nel caso qualcuno abbia dimenticato la funzione del pastore.
Meno male che Gesù è sempre quaggiù, con noi.

 

XVII Domenica T. Ordinario Il “poco” diventa “tanto” – Gv 6, 1-15 (don Marco Pozza)

Domenica scorsa la gente aveva sete di parole, oggi ha fame di cibo. Oltre ad essere senza pastore, le pecore sono anche affamate. Lo intuiscono i discepoli che avvertono un pizzico d’angoscia perché un popolo affamato crea tanta preoccupazione. L’avverte Gesù quell’angoscia nel cuore dei suoi amici e insegna loro a gestire un’emergenza: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Lo chiede Lui, la stessa Voce che fra poco sussurrerà al Cielo ricevendo una risposta moltiplicata e inaspettata. Lo chiede perché vuol far loro capire che non c’è da temere, loro hanno già tutto: c’è Lui, c’è la smisurata sproporzione tra ciò che tengono e ciò che servirebbe, c’è il contesto giusto per ammaestrare il popolo, e loro stessi, alla logica del Cielo.  

“Fateli sedere”: è un comando amabile. La richiesta di pane arriva alle orecchie di un ragazzo con cinque pani d’orzo e due pesci, sembrano poco più di nulla: oltre cinquemila gole attendono di essere saziate. Eppure è il poco del granello di senape, il poco della vedova nella penombra del tempio, il poco dell’età del pastore Davide o del Giosuè condottiero. Il poco di Maria, umile donna di periferia. Il poco che contiene il tutto qualora accetti di lasciarsi giocare dalle mani giuste. Tutti notavano la sproporzione, “ho poco più di nulla, ma è sempre meglio di niente, proviamoci”.  

Alza gli occhi il Maestro: occhi capaci di immaginare una storia diversa. La merenda diventa sazietà: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. Temevano il linciaggio per mancanza di cibo, sono indaffarati a raccattare il superfluo. Con un’inattesa scoperta: ogni cosa dipende dalle mani nelle quali si trova.   

Figurarsi: adesso lo vogliono fare Re! Perché un Uomo così risolve i problemi ad oltranza, spiana la strada, assicura il futuro a più generazioni. Nasce qui, sul limitare di un campo pieno di gente con la pancia piena, il fraintendimento che condurrà l’Uomo della Moltiplicazione al patibolo del Calvario. Lui chiede il poco – dei talenti, delle forze, dell’intelligenza – per compiere il miracolo dell’esuberanza. La gente capisce il contrario: “Abbiamo finito di tribolare, questo facciamolo Re”. E’ dai tempi di Erode che un Dio fantoccio raccoglie consensi ad oltranza; ma non è Gesù dei Vangeli. Quello che non sarebbe poi così difficile da seguire perché non chiede troppo e, ad essere sincero, non chiede nemmeno molto. Chiede semplicemente tutto. Per farci capire che forse quello che cerchiamo altrove è già in mano nostra. Il resto dipende dalle mani di coloro coi quali sceglieremo di collaborare. Cinque pani e due pesci: non sembravano nulla in principio.  

Basterebbe aver fede.

 

XVIII   Domenica T. Ordinario Signore, dacci sempre il tuo pane – Gv 6, 24-35

(da un commento di Mons. Antonio Riboldi)  Il Vangelo di oggi presenta il discorso di Gesù, nella sinagoga di Cafarnao, per spiegare il significato della manna nel deserto ma parla anche dell’importanza della fede in Cristo che è l’inviato di Dio.

Gesù, infatti, porta l’ultima rivelazione ed apre la via che conduce a Dio.

Colui che segue Gesù con fede, che entra con Lui nella comunità mediante il battesimo, che prende Gesù come modello e lo ascolta, troverà attraverso di Lui la verità che sazia la fame di vita. Perché questa verità è Dio stesso che, attraverso Gesù Cristo, offre a tutti gli uomini, la possibilità di condividere la sua vita.
Questa verità è presente e può essere colta nella parola e nell’esempio di Gesù, ma soprattutto nella sua figura, perché egli è la Verità, è la Via ed è la Vita di Dio in persona!

Possiamo facilmente immaginare la scena che il Vangelo descrive oggi.
La folla era stata saziata dal grande ed inaspettato miracolo della moltiplicazione dei pani. Aveva quindi intravisto la possibilità di trovare in Gesù una certezza materiale, per il proprio futuro: Gesù, in un modo o in un altro, avrebbe risolto i problemi quotidiani, quelli che ancora oggi affliggono tragicamente singole persone, famiglie intere o Nazioni. Gesù parla del pane, fonte della vita. Non dimentica l’urgenza del pane, per coloro che hanno fame, ma neppure vuole che ci si fermi alla dimensione materiale, pur necessaria…

Il suo discorso va oltre la vita terrena e mira direttamente al pane che dona la vita eterna: una necessità nutrirsi del pane materiale, altro è nutrirsi del Pane del cielo. Lo conosciamo tutti quel pane, che è l’Eucaristia: Gesù stesso che si fa Pane della Vita. Una vita che va oltre quella provvisoria dell’esistenza terrena, oltre la morte: la vita eterna con Lui.
Eppure, se ci guardiamo attorno, tanti di noi, che pure si dicono credenti, fanno fatica anche solo a pensare che la Comunione possa essere il gran nutrimento dell’anima. È difficile anche solo entrare nella profondità di questo Dono del Cielo. Genera come uno stordimento, anche solo pensare che quella piccola Ostia, che a volte, o ogni giorno riceviamo, sia davvero Gesù in persona. Per grazia di Dio ci sono però tanti per i quali il Pane del Cielo è davvero il nutrimento della vita interiore e non riescono a viverne senza.
Poteva Gesù farci un dono più grande? Sicuramente No. Ma allora perché un tale dono è così poco apprezzato?
Credo davvero che dobbiamo chiedercelo e cercare di darci una risposta, se così fosse… chiedendo la grazia di comprendere che fare dell’Eucaristia il nostro cibo è dare pienezza di senso, di forza e di serenità alla nostra esperienza umana quaggiù, per prepararci, fin da ora, a ‘vivere di Dio’… cosa potremmo desiderare di più?

 

XIX   Domenica T. Ordinario Pensare quant’è bello! (Maledetta gelosia) Gv 6, 41-51 (Commento di don Marco Pozza) Gesù, dotato di fascino travolgente, di primo acchito tramortiva la gente con la sua bellezza inimitabile ma ciò che conquistava gli animi erano le sue parole che producevano ciò che dicevano: “Guarda!” e il cieco ci vedeva, “Cammina!” e lo storpio si raddrizzava, “Guarisci!” e il malato guariva.

Un giorno lo vollero fare re convinti che “questo ci risolve tutti i problemi”. La folla lo acclama, Lui sgattaiola via; le pance piene lo additano come mago, Lui fugge e si ritira a pregare tutto solo.

La gente non lo capisce, Lui riparte ogni volta da zero lasciando il ricordo di quella sua unica Bellezza, tra le vie della Palestina.

Non lo compresero appieno neppure coloro che gli passarono accanto, nemmeno coloro che assieme condivisero pani, pesci e speranza.

Non lo capiscono i paesani, l’hanno frainteso pure i suoi, l’hanno minacciato di gettarlo dal precipizio.

Perché va bene tutto ma questo proprio no:  “il pane disceso dal cielo” non può essere il figlio del carpentiere Giuseppe e della lavandaia Maria, non c’è carisma, né charme…

Non può essere che Dio si sia nascosto tra le viuzze nazarene, all’imbrunire del sole o al calare della pioggia a loro insaputa. Dio, qualora fosse tale, deve essere quello che avevano immaginato da sempre nella loro mente. Un altro Dio sarebbe difficile da digerire: significherebbe mettere in discussione l’immagine di Dio che ci si è creati, dover rileggere passi della Scrittura e capire che la fede è un eterno cammino da percorrere e ripercorrere.

Venne Lucifero, esperto conoscitore della gelosia, e ne offuscò la primordiale Bellezza. Il mondo gli dette credito: uccisero l’autore della Vita perché la Bellezza faceva paura. Lui tornò, lo avvertirono in tanti in quei lunghi mille giorni di peripezie: è la gelosia che impedisce di scrutare il mondo dalla postazione di Dio.

Nacque lì, all’incrocio tra gelosia e menzogna, quella spavalda immagine moralistica di Dio e della sua proposta d’amore. Il suo era e rimane semplicemente l’invito ad una vita luminosa. Tutt’altra cosa capirono gli uomini e lo uccisero.

Lo uccisero per gelosia: era troppo quel Pane che prometteva sazietà, al mondo bastava molto meno.

Ieri, hodie et semper.

XX Domenica T. Ordinario Un Pane vivo: il Pane nuovo – Gv 6, 51-58     (Commento di don Marco Pozza) Sarebbe interessante sapere cosa compresero gli apostoli che avevano avuto parte di quel Corpo e Sangue per la prima volta: “Prendete, questo è il mio corpo”, “Prendete, questo è il mio sangue”. L’apostolo Giovanni, che posò il suo capo sulla spalla del Figlio dell’Uomo, custodirà per sempre ogni parola.

Donare se stesso è il più grande dono che Gesù potesse fare e ci fa comprendere di quale amore siamo amati.

Per un triste e prezioso privilegio, il peccatore ha bisogno dell’amore che più lontano lo insegua e più dal basso lo risollevi. Noi amiamo Gesù perché Lui per prima ci ama.  Essere partecipe in presa diretta di un Cristo che cerca nascondiglio nel tuo petto, che s’insinua nei tuoi pensieri, che sveglia il tuo torpore.

L’eucaristia! L’emozione di un Dio che ti raggiunge come sei: peccatore e schiavo, menefreghista, codardo e marcio, sporco, splendido e irriverente. Stupito, stupido o ignavo. Non importa: Cristo entra! “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno”  (Gv 6,51).

L’Eucaristia è lasciarsi andare, afferrare e strapazzare dall’onda di Gesù Cristo. Percorrere sentieri inediti, tracciare percorsi di fantasia, capovolgere i programmi. Chi celebra l’eucaristia si sente più libero, sa d’essere uomo ma non più uomo. Sa di non meritare l’eucaristia – “O Signore, non son degno di partecipare alla tua mensa…” – ma conosce quell’abbraccio che ti fa ripartire, che ti rimette in cammino, che traduce la debolezza in potenza inaudita. Bisogna desiderare la comunione con Dio con la stessa intensità con cui si ha bisogno dell’aria che respiriamo.

Chi crede nell’Eucaristia non sta con le mani giunte, ma tiene le maniche rimboccate. Se la testa è leggermente inclinata non è per deviante misticismo, ma per intraveder nelle fessure strade nuove in cui lanciarsi. Perché nel profumo di quel pane spezzato annusa la forza del sogno. Diventa un insoddisfatto, un insofferente delle mezze misure, uno deciso a perdere tutto pur di tentare l’avventura della nudità più povera di fronte a Dio e, per questo, sognare è un dovere.

Quando nel mondo è accaduto qualcosa di nuovo, è avvenuto grazie a dei sognatori terribili, inguaribili, che si ostinavano ad immaginare una realtà diversa, nuova, fuori dalla banalità. M’affascina da sempre la gente che, celebrando l’eucaristia, ha immaginato un modo diverso d’essere uomini, preti, liberi: di innalzarsi e abbassarsi, di costruire, distruggere e ripartire.   D’essere pazzi per Dio! Se sei uomo eucaristico avverti la possibilità di tentare imprese nuove.

XXI   Domenica T. Ordinario  L’autore della gioia – Gv 6,60-69 (Commento di don Marco Pozza)

Dopo il discorso di Gesù, molti tra i discepoli si allontanarono; probabilmente Gesù se lo aspettava,       immaginava la loro stanchezza, l’asprezza e l’incognita di quella Parola loro affidata. Popolo di pescatori, lo      sbaraglio divenne ben presto il loro lago di pesca dopo essersi imbattuti nella voce di un Uomo d’amabile presenza. Era capitato tutto così improvviso una mattina come altre: Gesù li aveva notati tante volte immersi nei loro lavori e abitudini, li guarda e li chiama. Li toglie dal torpore e li lancia su un futuro diverso. Un pugno di parole e il lago apparve piccolo ai loro occhi di sognatori: andarono e videro dove abitava e da quel giorno condivisero casa, spese, sogni e tanta di quella gioia da diffonderla in tutta la regione. Andrea lo dice a Pietro, lo viene a sapere Natanaele, pochi passi più avanti è chiamato lo strozzino Matteo; poi Giacomo e Giovanni… Francesco, Teresa, Edith, Luigi, Ambrogio e Filippo fino a me, forse pure fino a te. Gente che infiamma perché Qualcuno ha infiammato prima loro, ha dato la Vita e li ha convocati, fino a mostrare l’insopprimibile esigenza che alberga nel cuore dell’uomo: quella di mettersi in gioco.

Il loro esserci per il mondo sarebbe stato un donare la loro vita, l’amore e la presenza. Perché di loro non rimanesse il fiatone ma il ricordo di qualcuno che li amava. Anche tra i discepoli questa domenica serpeggia il malumore, nascono le prime insinuazioni sull’invalidità della Croce, s’ingigantisce quel fraintendimento che da più parti veleggiava. Tanto che Gesù ha dovuto dire loro la verità, senza tentativo alcuno di mercanteggiare la loro fiducia:  “forse anche voi volete andarvene?”

Libero Lui e liberi loro perché nelle strade del Vangelo non ci può essere gioia senza libertà. Lui mise in conto che qualcuno non avrebbe retto, che altri si sarebbero stancati, che qualcuno poi cedesse strada facendo. S’arrestava e rilanciava loro il comandamento della libertà. Fino a far nascere dentro di loro – esperti di conti, baratti e guadagni –la domanda: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”.

Dopo un’esperienza di familiarità con Lui, lo scelsero ad oltranza perché in Lui era la Gioia, oltreché la Vita. Era la Gioia quella che sarebbero andati urlando e cercando.Sbaglieranno ancora: uno su tutti, Pietro. Ma Lui mai lo svergognerà. E Pietro, per ripagare, non si fermerà. Nonostante la prigionia, le bastonate, la persecuzione: oramai è una roccia.

Il Maestro, puntando sui suoi pregi, l’ha trasformato: avesse puntato sui difetti l’avrebbe svergognato. Lui e tanti altri dopo di lui. Fino a me che, inginocchiato, avverto il frastuono di quella domanda:  “forse volete andarvene anche voi”? Ci penso e lo guardo; ci penso e tento la risposta. Ci penso e taccio. Anzi no; merita una risposta:  “sto con Te, Signore. Mi mancheresti troppo”.

XXII Domenica T. Ordinario  

La verità dell’uomo è nel suo cuore   Mc 7, 1-8.14-15.21-23 – Mons. A. Riboldi

Gesù bolla l’ipocrisia con dure parole e mette a nudo il nostro cuore, dal quale traggono origine il bene e il male. Per cuore intendiamo il centro dei progetti, che il Signore ha depositato in ciascuno di noi: un bene che ha origine dal Suo stesso cuore e si esterna nelle azioni o nelle parole, negli sguardi, coinvolgendo tutto quello che siamo.
E’ facile incontrare persone che – lo si nota subito – hanno la chiarezza di cuore in quello che dicono o fanno. Seguire “la legge del cuore” – che dovrebbe essere la norma dei nostri comportamenti – è lo stesso che “seguire la legge dell’amore” che Dio dona a noi che, “con tutto il cuore”, lo doniamo agli altri.
Dio solo sa quanto ci sia bisogno che tutto quello che facciamo, diciamo, doniamo agli altri, sia l’espressione di un cuore semplice e pulito! È come donare un raggio di cielo, anche solo con uno sguardo, una parola.
Però è difficile mantenere pulito il cuore dalle tante tentazioni che si hanno.
Occorre una disciplina costante come quella dei santi.
Spesso ci difendiamo stupidamente con l’ipocrisia, ossia a fermarci solo a ciò che appare, ma che ha alcun senso se non è ispirato dalla sapienza del cuore. Tante volte siamo abituati a nascondere dietro i nostri atteggiamenti, apparentemente irreprensibili, vere mostruosità. Certi silenzi ‘educati’ o certe ‘mezze frasi’ sono, a volte, e spesso lo sono, schiaffi sferzanti indirizzati a fare il più grande male possibile.
Certe giustizie esteriori sono solo vere coperture a grandi ingiustizie. Certe condotte irreprensibili altro non sono che raffinati modi di tenere nascoste coscienze che sono veri letamai. Tutto questo Gesù la chiama ipocrisia.
Liberarci dal male dell’ipocrisia e rendere libero il cuore di aprirsi al bene, non significa solo cercare di avere una condotta buona davanti agli uomini, osservare tradizioni e modi di pensare umani, ma è soprattutto avere il vestito pulito di ciò che siamo dentro. Se infatti interiormente siamo ‘luce’, questa si rifletterà ‘fuori’.
“Santa Maria, Madre di Dio,
conservami un cuore di fanciullo puro e limpido come acqua di sorgente.
Ottienimi un cuore semplice, che non si ripieghi ad assaporare le proprie tristezze. Ottienimi un cuore magnanimo nel donarsi, facile alla compassione.
Un cuore fedele e generoso, che dimentichi alcun bene e serbi rancore d’alcun male.
Donami un cuore dolce e umile, che ami senza esigere di essere riamato.
Un cuore contento di scomparire in altri cuori, sacrificandosi davanti al tuo divin Figlio. Dammi un cuore grande e indomabile, così che nessuna ingratitudine lo possa chiudere, nessuna indifferenza lo possa stancare.
Donami un cuore tormentato dalla gloria di Gesù Cristo, ferito dal Suo Amore, con una ferita che si rimargini in Cielo”.
 (L. Grandmaison)

XXIII Domenica T. Ordinario  

Apriti – Mc 7, 31-37

(commento di don Marco Pozza)       Il cristianesimo è anche occasione di stupore e meraviglia: il                   muto ritrova l’eleganza della parola, il cieco riacquista la sensualità della vista, il sordo riavverte l’eco dei rumori nelle gallerie dei suoi timpani e lo zoppo riassapora la dolcezza dei passi. Il tutto sotto gli occhi di una natura che è un’esplosione di vita: le paludi diventano sorgenti d’acqua cristallina, il deserto s’ammanta della freschezza dell’erba e la natura ritrova quell’alfabeto primordiale che dall’alba dei tempi è rimasta l’orma di Dio nelle strade di quaggiù. (Is 35, 4-7)

Vecchio seduttore il Dio cantato da Isaia; esperto conoscitore del lato sensuale dell’Amore Gesù pennellato nel Vangelo. Discreto e amabile, colorato e delicatissimo, da condurti in un luogo appartato e lontano dalla folla: perché il tuo deficit non divenga motivo di derisione alcuna.

Solo là, sul limitare di quella zona dove il Creatore s’appresta a restaurare la sua creatura, egli ti mette le dita nelle orecchie, ti tocca con la saliva, la lingua, alza gli occhi al cielo e pronuncia quella parola strana che d’allora è divenuta sinonimo di movimento e divertimento:  “Effatà”. Poche sillabe, la brevità di un suono che s’allarga sull’Infinito, il grido di battaglia della Vita: “Apriti!”. In un verbo all’imperativo il desiderio più recondito e manifesto che abita il cuore di Dio: che nessuna casa sia senza la festa del cuore. Un verbo che nell’italica lingua ha come sinonimi “accendere, allargare, allentare, bucare, agevolare, facilitare, scoppiare, liberarsi, nascere, sbocciare” e nell’alfabeto del Cielo questa domenica diventa sinonimo di “stupirsi, meravigliarsi, mettersi in gioco, allargarsi, alzarsi, lottare, gioire, sbranare la vita”.

Il Vangelo è l’unica aula scolastica dove abbinando tali sinonimi al verbo aprire non si rischia una plateale bocciatura ma l’esatto contrario: una meritata promozione per aver allargato lo sguardo sulle prospettive vertiginose di Dio.

Il Vangelo invita a spostarsi da una terra di rassegnazione ad una di beatitudine, ad abbandonare la sicurezza claustrale delle sacrestie per abitare il deserto sconfinato del mondo, per risvegliare quella sete d’infinito che palpita dentro il cuore della storia. Dell’uomo stesso, magari nascosto sotto un pugno di braci.

“Apriti (…) e poi non dirlo a nessuno”. L’uomo guarito compì una trasgressione in piena regola: perché solo l’uomo infelice riesce ad imprigionare la gioia dentro il cuore. Dal giorno in cui i Vangeli aprirono squarci di Luce quaggiù, certi uomini smisero di confondere quella di una torcia elettrica con la luce del sole e s’inabissarono in quella Luce che aprì loro gli occhi, riaccese in loro i passi, fece avvertire il suono del corno nei loro timpani assonnati.

Da quel giorno avversari e nemici inciamparono per troppo stupore:  “ha fatto bene ogni cosa, fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Svegliò l’aurora perché iniziò a predicare il Vangelo della Vita: “in principio era la Bellezza”. Apriti!

XXIV   Domenica T. Ordinario La di Lui immagine – Mc 8, 27-35 (commento di don Marco Pozza)

Dopo il miracolo dei pani e dei pesci, Gesù lo volevano eleggere re ma, nel suo cuore però, da alcuni giorni aleggiava un altro interrogativo: “Chissà che immagine di Me s’è fatta la gente”. Questa domanda Gesù se l’era posta sin da quando qualcuno aveva mormorato a seguito di un linguaggio duro di Gesù che chiese loro:  “Forse volete andarvene anche voi?”.             

La risposta: “Da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna”,  a Gesù, non bastava perché egli desiderava preparare quella piccola comunità a non perdersi d’animo davanti alle spine, a non scoraggiarsi davanti alla Croce. Li aveva portati nella strada per togliere loro ogni illusione: a Cesarea, sotto il Cielo e soli coi loro pensieri.

Gli interessava sapere cosa la gente pensava di Lui, non per vanagloria o ambizione, ma per la premura che essi si facessero un’immagine giusta di Lui e del Padre:”chi dice la gente che io sia?”.

Chissà quali occhiate tra loro si davano i Dodici per raccontargli la confusione dei pensieri della gente:”alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri qualcuno dei profeti”.

Poi li fissa incrociando il loro sguardo. Prima gli altri, poi loro:  “voi, chi dite che io sono?” Perché se pure in loro l’immagine fosse offuscata, chi tramanderà quella giusta del Figlio di Dio? Gli apostoli tacciono, la paura di sbagliare è grande, forse qualche istante, poco di più; li anticipa Pietro, esperto di sbagli e di grandi pesche:  “Tu sei il Cristo!”. Vale a dire “sei il Tutto, sei il mio Dio, sei Tu e mi basti”.

Lui si volta verso l’amico pescatore e lo trafigge con lo sguardo:  “e tu sei Pietro, e su questa pietra metterò in piedi la mia Chiesa”. La costruzione edile più arrischiata della storia. Occorre, però, cambiare tutto: basta Cefa,  “ti chiamerai Pietro”. Gesù “Cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva soffrire molto e doveva essere ucciso e che sarebbe resuscitato il terzo giorno”. Sulla strada li aveva condotti per prepararli a quella profezia finora rimasta sulle sue labbra. Parla loro con precauzione, avanza pian piano, usa la dolcezza dei giorni migliori. Un intervento d’altissima chirurgia: è necessario correggere la di Lui immagine. A guardarli nel volto la loro ansietà aumentava, le loro labbra davano segni di tremito: “Che cosa dice costui?!” Pietro indietreggia a testa china. Gli altri non accennano a riprenderlo: ha parlato anche a nome loro.

Nacque lì, al crocevia di una strada polverosa, il primo passo di Giuda: non accettava più un Maestro debole e perdente. Gli altri ci pensarono a lungo, Pietro compreso. D’altronde la sfida era ardua tanto quanto la promessa:  “ti chiamerai Pietro” gli disse l’Amico. Pietro – nome trasformato da Lui – nasce per far sbocciare al centro della storia la di Lui nostalgia.

XXV Domenica T. Ordinario   –

Chi vuol essere il più grande… – Mc 9, 30-37 (commento di don Marco Pozza)    Dalle sponde del lago nei pressi di Gerusalemme, Gesù parlò ai discepoli:  “il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Lui confidava loro, con delicatezza e premura, la sfida di Gerusalemme, l’ignavia della Croce, l’inedito del mattino di Pasqua.   Essi non capirono – ma discutevano su chi tra loro fosse il più grande. Rimasti un po’ indietro rispetto a Gesù, camminando, i discepoli erano in disaccordo tra loro e forse discutevano anche ad alta voce. Qualche frammento di discorso arrivò alle orecchie del Maestro, amabile e severo, che al momento fece finta di non sentire, forse, per non svergognarli in pubblico. Giunti che furono tutti in casa – al riparo da sguardi e orecchie indiscrete – Gesù affermò che anche i capelli del capo erano contati e chiese loro:  “di che cosa stavate discutendo lungo la via?” Presi in contropiede gli apostoli, forti d’anime allenate alla sincerità, tacquero.     Forte era il rischio di ripetere la figuraccia di qualche ora prima quando intervenne Pietro ricevendo lode e infamia.

Il Rabbì li guardò e un pizzico di malcelata compassione ne rigò lo sguardo: nel mondo li ha colti, serve ancora pazienza – e servirà pure perderne uno – prima di far loro comprendere che “tra voi non sia così”.

C’era un bambino sullo stipite della porta, Gesù si alzò, lo accarezzò e lo fece sedere innanzi ai discepoli che avevano occhi bassi e vergognosi e disse:  “chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome accoglie me”.

Li videro uscire con le orecchie basse: era la prima Chiesa nascente. Più che bozzetti di santi e stralci di principi, avevano i lineamenti di gente misera e meschina che pagò a caro prezzo la supponenza avanzata.

In quel crepuscolo di Cafarnao, emerse il lato umano della Sua Chiesa-Sposa: che n’avremmo fatto noi di splendidi e perfetti discepoli? Sarebbero serviti solo a farci svergognare delle nostre nudità e arrossire per le nostre piccolezze e, magari, in qualcuno sarebbe sorto il sospetto d’essere indegno di appartenere a quella truppa evangelica. Invece li volle così: del borgo, macchiati d’umano e nostalgici di Lui, scomposti e odorosi di strada.

Per raccontare che la Chiesa non è mai stata la comunità dei perfetti ma un manipolo di gente perdonata che, a sua volta, diverrà il paradosso e l’ambizione di un Uomo che dell’indegnità dei suoi figli non teme ripicca.

Quei figli che, apparentemente sornioni, se ne stanno ancora indaffarati sulla strada a borbottare su chi tra loro sia il più grande.

XXVI Domenica T. Ordinario

La Chiesa tra incenso e gelosia – Mc 9, 38-43.47-48 (commento di don Marco Pozza)  

Questa volta i discepoli sembrano avere, forse, un pizzico di gelosia per quella misteriosa energia che      sembra appartenere anche ad altri, a quelli che “non sono dei nostri”. Lo dice Giovanni a Gesù, forse con quel pizzico d’ingenuità tipica di chi ha il cuore ancora fanciullesco:  “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri”. Storie d’ambizioni più o meno dichiarate nel gruppo dei Dodici: gli amici di Lui sono loro e solo a loro dev’essere concessa la grazia di far rinascere la vita sopra le macerie. Stavolta, però, davanti a loro campeggia la figura di un grande Gesù, privo d’ogni traccia di gelosia, che li ammaestra ad un’apertura d’orizzonti:  “non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi”. Storia di un Uomo che nessuno volle ospitare nei giorni della nascita, del quale pochi osarono dichiarare l’amicizia sui sentieri vertiginosi del Golgota ma, nel pieno della sua fama terrena – in quei mille giorni che vanno dal lago di Tiberiade al Golgota – tutti desideravano farsi amico in segno di gelosa appartenenza. Come a dire: “Nessuno ce lo tocchi, è nostro”. Ebbe un bel da fare Lui, profondo conoscitore dell’animo umano, a spiegare loro che i confini vanno allargati, che gli steccati li hanno inventati quaggiù, che nelle praterie del cielo è cosa assai azzardata dividere gli uomini e le donne, i buoni e i cattivi, i “nostri” e i forestieri, i degni e gli indegni.

Di Lui, e del suo Spirito, nessuno potrà dire “è mio, è nostro” perché esso non sarà proprietà privata dei cristiani ma di tutti coloro che – pur distanti dall’aver conosciuto quel Volto – sapranno dare un bicchiere d’acqua in Suo nome.

Quant’è bella la fisionomia della Chiesa immaginata e organizzata dal Nazareno, quella presenza ospitale in cui c’è posto per tutti: per chi nella figura di Cristo ha posto la sua fede e per chi di Lui ha solo sentito parlare, per chi n’è convinto e per chi avverte curiosità, per chi cerca una conferma alle sue risposte e per chi cerca una domanda che accenda i suoi passi. Un luogo che tutti, spontaneamente, chiamerebbero casa, quello spazio intimo e familiare in cui ci si sente sicuri anche al buio. Quant’è distante oggi la nostra Chiesa da quell’idea…

La Chiesa – quella organizzata dagli uomini – non avrà niente da dire sulla morale fino a quando, coloro che ci ascoltano, non avranno provato il piacere di Dio nella nostra esistenza. Un barlume di piacere senza gelosia alcuna. Perché il Volto di quell’Uomo non conosce preferenza alcuna. Almeno Lui. Adesso ci appare chiara quella Croce che si sta stagliando all’orizzonte: l’Amore irrita la Storia.

XXVII Domenica T. Ordinario

L’uomo non separi mai… Mc 10, 2-16  (da un commento di Mons. Antonio Riboldi)

l Vangelo di oggi chiarisce le idee sul sacramento del matrimonio, perché Gesù desidera, essenzialmente, offrirci la conoscenza della ragione del dono della vita che, ricordiamolo sempre, mira alla salvezza eterna. Lì c’è la risposta per ciascuno di noi, ossia l’invito alla felicità eterna.

E’ naturale che in tale risposta trovi la sua posizione ideale il matrimonio, che è la vocazione più comune alla santità: scelti, chiamati a vivere il gran dono della carità, giocandosi tutto l’uno per l’altra.

Tale dono realizza un’unione, che dovrebbe essere irreversibile, per l’eternità: un’unità che si costruisce lentamente, a volte facendo esperienza della croce.

Un tale amore è sempre condivisione della vita, anche nelle piccole scelte quotidiane, fino a diventare “carne della mia carne, ossa delle mie ossa”. L’amore nel matrimonio non può mai essere un evento occasionale della vita, da usare e gettare, ma richiede una virtù che oggi pare sconosciuta, la fedeltà: “fin che morte non ci separi”, per poi essere uniti un giorno per sempre.

Dio ha voluto che l’amore tra i coniugi diventasse un sacramento, ossia strumento di santificazione; ha voluto, in altre parole, dargli il senso delle cose sante, quelle in cui opera Lui stesso accanto all’uomo.

Per cui i coniugi sanno di poter contare su una “grazia di stato”, ossia sulla grazia del matrimonio, sacramento che fa superare tante difficoltà, ossia sentire Gesù farsi partecipe della vita matrimoniale.

Gesù, l’immaturità nell’amore, la chiama “durezza di cuore”: per questo Mosè aveva concesso il ripudio.   Si è immaturi nell’amore quando, a causa dell’egoismo, si vive da “io, e non da “noi“.

Come superare quest’ insidia contro l’amore e contro il matrimonio? Anzitutto conoscendo e rivalutando il ruolo dell’amore per viverlo senza soffermarsi solo sugli aspetti sessuali.

XXVIII Domenica T. Ordinario Vendi quello che hai e dallo ai poveri Mc 10, 17-30  

(commento di don Marco Pozza)    Un giovane si avvicina da Gesù e gli chiede:”Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. “Avere”, come se, possedendo molte ricchezze il tipo volesse comprare anche la vita eterna anziché “conquistarla”. Infatti, Gesù precisa:”Se vuoi entrare  (non “avere”)nella vita eterna osserva i comandamenti”. Cioè: non pensare ad avere, ma ad essere. Il giovane risponde che “Tutte queste cose le ho osservate da sempre” e, guardandosi attorno, aspetta che Gesù gli dica:”Tranquillo! La vita eterna è tua”. Invece le cose non vanno come lui pensa e Gesù, guardandolo con tenerezza, lo ama.   Quel giovane è in gamba ma vede tutto come “cose”, anche i comandamenti, e possiede la convinzione che la vita non dipende dai beni, dalle cose che uno ha, ma da come uno se ne serve. Quel giovane va aiutato a capire e Gesù lo ama perché è un ragazzo che crede nell’onestà e nell’ubbidienza, che vive con impegno. E sarà quasi crudele, anche se necessario, dovergli rispondere:”Perché mi chiami buono? E perché m’interroghi di ciò che è buono? Nessuno è buono tranne Dio solo”. Ma questo giovane non è ancora un santo: è un ricco. E Gesù lo aiuta lanciandogli una chance formidabile:”Se vuoi essere perfetto…”. Coraggio, giovane, prendi in mano la tua vita!

Dimostra a te stesso che non sei il servo delle cose, ma il padrone, tanto che puoi farne ciò che vuoi, anche venderle, anche regalarle. Niente! Il giovane rimane immobile e completamente spiazzato. E’ per bene, ma non ama l’azzardo. I comandamenti? Fossero stati quaranta, li avrebbe osservati tutti, ma rinunciare alla sicurezza delle cose, questo no!  

“Ma allora chi si può salvare?” Lo chiedono gli apostoli. E la pagina di questo vangelo torna a complicarsi. Come dire: nessuno. Quasi che tutti, in un modo o nell’altro, fossimo ricchi. Ed è vero anche questo. Tutti, infatti, possediamo ricchezze e tanto altro: amori, abitudini, luoghi, nostalgie, sogni familiari solo a noi. I miei figli, quella donna, gli amici? Crediamo siano legittimi, invece sono ancora “cose”, sono i “molti beni” che aveva quel giovane di cui ci parla l’evangelista.

Abbassa la testa, si gira e se ne va via triste. Triste. Perché capisce che gli è stata offerta un’occasione che non si ripeterà più. Nella vita nulla si ripete! Le ore, i giorni, gli anni sono unici e irripetibili. Sempre! O li vivi da protagonista, o li perdi. Triste, perché intuisce che rimarrà “un tale”: uno dei tanti, uno del gregge, uno che segue la corrente. Perché solo chi ha il coraggio di firmare la propria vita ha il diritto e la gioia di essere chiamato per nome! E Gesù lo vede allontanarsi, ma non prova assolutamente a fermarlo, non cerca di convincerlo abbassando il prezzo. Lo lascia andare via. Rispetta la libertà di quel giovane come quella di tutti.Non ricorre al “tu devi essere perfetto”,  ma rimane fedele al “se vuoi essere perfetto”. Non c’è gioia senza libertà!

XXIX   Domenica T. Ordinario – La sbandata dei discepoli – Mc 10, 35-45

(commento di don Marco Pozza)   Il Vangelo d’oggi presenta la richiesta strana          per due apostoli sui quali ci scommetteresti la testa, ci giureresti la trasparenza. Uno è Giovanni, il discepolo          diligente e puntuale e l’altro è Giacomo, il fratello             diverso, per carattere e per temperamento, eppure così simili nel chiedere all’Uomo dei Vangeli la prima raccomandazione della storia: “Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. Forse stupito pure Lui, li guardò: “Che cosa volete che io faccia per voi?”. Loro, certamente ingordi: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”.

Povero Messia: in preda alla passione sempre più incombente, di domenica in domenica deve far fronte all’ingordigia che s’è inabissata nel cuore della sua gente. Qualche chilometro prima li sentì borbottare tra loro. Portò pazienza, attese d’entrare in casa per redarguirli: “Di cosa stavate discutendo lungo la via?”. Essi tacquero: forte era la vergogna d’aver discusso su chi tra loro fosse il più grande. Più prossimi al Golgota, la lotta diventa spietata, qualcuno decide di metterci la faccia, di esporsi fin quasi all’ingordigia pubblica: “Uno a destra e uno a sinistra, Maestro. Questo ci basta”.

Forse Giovanni pensava che bastasse avere grandi doni mistici per reggere

la forza di quello sguardo, oppure anche lui, come me, di fronte al Suo mistero brancolava nel buio, laddove tutti sembrano camminare un po’ tentoni: peccatori e santi, diavolo e Madonna.

Pazienza per il giovane ricco, svergognato con delicatezza domenica scorsa: il suo fervore viaggiava pari all’ambizione di avere la vita eterna. Passi lui, ma a scivolare stavolta sono due di quelli che hanno appena sentito il terzo annuncio della Passione: hanno sentito e hanno tentato di assicurarsi il futuro, scatenando l’insoddisfazione degli altri dieci per aver preso l’iniziativa.

Il sospetto quella sera fu forte per l’Uomo di Nazareth, che anche quella ciurma di discepoli – cercati, amati e accreditati – avesse guardato alle sue parole come ad un film straniero senza sottotitoli: vedevano le immagini e traducevano a modo loro le sue parole. Fino a riempirne oggi i giornali: corruzione, illecito amministrativo, stupri, giunte che cadono, funzionari travolti da bufere scandalistiche, istituzioni corrose dalla ruggine del sospetto.

Storie di gossip, tradimenti e ripensamenti. Lui, grazioso nella sua sterminata pazienza d’educatore, a rilanciare la sua sfida paradossale e ambiziosa, forse pure colorata di un pizzico d’ingenuità: “Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”. Il problema è che Lui ci crede davvero.   Noi, di Lui, abbiamo sempre più nostalgia, giunti a questo tornante della storia.

XXX Domenica T. Ordinario Il cieco “vede” Gesù – Mc 10, 46-52 (commento di don Marco Pozza)      

Il cieco, dell’odierno vangelo, non era uno sprovveduto perché se il troppo caos non favoriva la compassione della gente lui si sedeva ai bordi della strada che conduceva a Gerico; lì la gente sovente lasciava cadere qualche monetina ai piedi dei mendicanti. Era cieco ma l’udito gli funzionava a meraviglia, non vedeva, ma avvertiva il passaggio di passi strani e dal sapore assai familiare per lui.

Stavolta c’era l’occasione della vita e si giocava tutto. Molti dei presenti avrebbero voluto metterlo a tacere come se a lui non bastasse già la miseria di pupille incapaci di scorgere i lineamenti delle cose e i volti delle persone: gli altri sì che ci vedevano bene. Se la vista gli difettava, chiese aiuto alla gola riarsa:  “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Gesù passando si arrestò: talune volte gli piaceva farsi chiamare, sentirsi cercato, desiderato, invocato. Non era pia esigenza di vanità ma semplice ricerca di un frammento di fede cristallina. E’ nostalgia di vera fede. Lui si fermò, attirato da quel grido così rauco da supplire la mancanza della luce:  “chiamatelo!”. Straordinario il Maestro: “chiamatelo proprio voi che vorreste metterlo a tacere. Voi, non altri”. Basta quell’imperativo – chiamatelo! – per far nascere in loro l’esame di coscienza meglio riuscito della storia: i veri non vedenti erano coloro che sgridavano il cieco per farlo tacere.

L’unico che ci vedeva davvero bene era colui che non vedeva, il cieco della strada di Gerico. Chiamatelo! E lui gettò il mantello, balzò in piedi e corse verso la Luce:”mio Signore, che io possa vedere! “Vedere uomini che camminano, alberi, animali, cose… Che io possa vedere Te! La cecità che cerca disperatamente la Luce, la miseria al cospetto della Grazia: “Va, la tua fede ti ha salvato”. Analisi approfondite hanno svelato che in realtà quell’uomo, accattone di Luce, era un non vedente al quale riuscivano cose impossibili al manipolo di discepoli: “vedere col cuore” l’essenziale della storia. Alzati! E racconta la Luce che ti ha accecato al punto tale da ridarti la vista; e con essa l’ebbrezza della luce, il mistero dei chiaroscuri, l’evidenza della Grazia all’opera. Bartimeo era cieco ma ha riconosciuto Cristo; io ci vedo benissimo – parole dell’oculista – e Cristo m’è passato davanti anche oggi: eppure non l’ho riconosciuto. Con ironia l’invito era diretto a me:  Alzati!

1 Novembre – Solennità di Tutti i Santi Chi sono i Santi? (Persone come te che puoi diventare come loro)

Mt 5, 1-12

(commento di don Marco Pozza)   Il Vangelo d’oggi rischiara l’orizzonte come uno squarcio che s’apre in un cielo scuro. Ha senso oggi dare del beato all’uomo della periferia e dei cassonetti?

«Beati (…) Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». 

Facile promettere orizzonti di felicità domani: è l’oggi quello che all’uomo fa spavento, lo fa tremare, gli stordisce persino il cuore. In Chiesa è anche bello sentirle risuonare queste parole. Il problema è oltre la porta della chiesa laddove la storia chiama, grida, insulta. Beati voi! Certi giorni anche il Cielo sembra irridere i rantoli di quaggiù.

Eccolo il senso spettacolare di questa liturgia: chi sono i Santi?

Sono quelle persone che hanno saputo leggere la storia con gli occhi di Dio. Persone – che non sono nate sante, ndr – ma che hanno accettato di lasciarsi guardare dal Cielo fino a riuscire a pensarsi come Dio li ha pensati: uomini perfettamente uomini, armati di beatitudini, hanno guardato in faccia la storia e l’hanno attraversata, né aggirata né scansata. Eroismo? Più che eroismo si trattò forse di fiducia anche se, oggi, fidarsi di qualcuno, sembra un’alta forma d’eroismo.

Uomini e donne scesi in strada consapevoli del proprio avvenire: oggi scartati e domani beati, con quell’inaudita fanciullezza di spirito che spinse qualcuno di loro a rasentare la follia e il paradosso. Finendo per chiamare sorella quella che per taluni invece è nemica,  l’esatto opposto: la morte, per l’appunto. Sorella, invece: quasi una porta che, attraversata, getta sull’altrove di Dio. Io i santi me l’immagino da sempre come uomini coi piedi ben piantati per terra: «Nessuno prende la realtà sul serio come il santo perché in verità ogni fantasticheria, sulla sua strada irta di pericoli, inesorabilmente si vendicherebbe. Diventare santo significa per l’uomo reale staccarsi da sé, per entrare nel Dio reale» scrisse un giorno Romano Guardini. La santità, dunque, come il massimo del realismo più che l’elogio della fantasia. La santità è tutta qui: lasciarsi pensare da Dio e vivere come da Lui pensati.

2 Novembre Commemorazione defunti Vivere da vivi – Gv 6, 37-40   (Commento di don Roberto Seregni) Da queste parti, continua a piovere.

Ieri, nella visita al campo santo, ho visto molte lacrime mischiate alla pioggia. Quella dei cimiteri è una terra salata, irrigata di lacrime e di speranza.

E’ una terra che custodisce la certezza che la morte non è l’ultima parola, ma un punto messo al penultimo capitolo.

C’è una pagina ancora. Quella definitiva. Non solo la fine, ma il fine. Per noi cristiani, discepoli del Dio vivente, non esiste la fine, ma solo il fine che è il Cristo Risorto.

La liturgia di oggi c’invita a metterci davanti alla morte, a quella dei nostri cari ma anche alla nostra. Le celebrazioni di questi giorni sono per i nostri cari, che ci hanno preceduto nel giardino del Padre, ma è fondamentale ricordarsi che al centro delle celebrazioni di oggi non c’è la morte. Il centro di questo giorno è la certezza della resurrezione di Cristo.

Ieri una cara amica mi ha scritto nell’imminenza di un suo viaggio in Terra Santa.

Gli ho chiesto di ricordarmi nella sua preghiera e in modo particolare davanti al Santo Sepolcro.

Lei è rimasta stupita da questo desiderio e mi ha chiesto il perché. Semplice, ho risposto io, perché è vuoto. Gesù ha lasciato vuoto il sepolcro, ha svuotato tutte le nostre paure, ha svuotato le angosce del nulla e del non senso della morte.   Il sepolcro di Gesù è vuoto, la vita nuova donata da Dio è più forte della morte.   In questo giorno, nella nostra visita ai luoghi della memoria, mettiamo al centro la resurrezione di Gesù. Abbandoniamo la preoccupazione della morte e lasciamoci invece pungolare dall’unica vera preoccupazione che un cristiano dovrebbe avere: quella di non vivere da “morto”, senza amore, senza passione, senza inseguire i sogni di Dio. Coraggio cari amici, ripartiamo da qui, da questa parola forte sulla nostra vita che c’invita a vivere da vivi. Buona settimana.     

XXXI Domenica T. Ordinario

AMERAI IL SIGNORE DIO TUO…E IL TUO PROSSIMO COME TE STESSO

Marco ci parla di uno scriba che è alla ricerca di Dio e vuol sapere come arrivare a lui con certezza.

Alla domanda quale sia il cuore della Legge, Gesù risponde in modo relativamente prevedibile, ma essenziale.

L’amore verso Dio che si realizza attraverso quello verso il prossimo, sono i due comandamenti che abbracciano tutti gli altri.

Nell’Antico Testamento il comandamento era diventato preghiera “Shemà, Israel” (“Ascolta, Israele” – Dt 6,4-5) sempre presente nei cuori, nelle menti, nelle mani e nelle case.

Gesù vi aggiunge la necessità di metterlo in pratica, mediante quell’amore per il prossimo che permette a ciascuno di verificare se ama davvero Dio (1Gv 4,20). La carità fraterna distingue e caratterizza i veri cristiani, fedeli a Gesù.

Lo scriba allora, felice di essere riconfortato nella propria fede, si felicita con Gesù. Ecco l’uomo che si complimenta con Dio, contento di ritrovarsi in accordo con Dio.

E’ commovente questo vecchio saggio che si complimenta con il giovane Rabbì, senza sospettare che si sta complimentando con Dio stesso.

Gesù ne è commosso e accoglie con gioia l’osservazione di quest’uomo che è un vero credente (Gv 1,47) e risponde alle sue lodi come ciascuno di noi vorrebbe sentire.Conferma lo scriba nella sua fede e lo rassicura che non si sta sbagliando.

XXXII Domenica T. Ordinario Ha dato tutto ciò che aveva – Mc 12, 38-44

(commento di don Marco Pozza)   Coloro che sono considerati grandi amano le folle che riempiono le piazze, non le piccole persone con i loro problemi. I grandi non cercano confidenza e amicizia, ma fedeltà e obbedienza;anche in questo Gesù Nazareno fa eccezione: trascina le folle, seduce i cuori ma quando tutti pendono dalle sue labbra svela un’attenzione puntuale per le persone. “E vide una povera vedova che vi gettò due spiccioli, in pratica un quattrino”. In mezzo alla folla, volge il suo sguardo alla povertà onorevole di quella donna. Il Vangelo è pieno di uomini e donne che, dopo averlo incontrato, non sono più gli stessi, sono trasformati, cambiano radicalmente vita. Seduto di fronte al tesoro del tempio, Gesù osserva come i tanti ricchi, impettiti, vi gettano molte monete: bravissima gente, davvero. Poi ecco sopraggiungere una povera vedova che vi getta appena due spiccioli. Gesù allora chiama a se i discepoli per dire loro: “Vedete? Quella povera vedova ha messo più di tutti gli altri, perché il molto degli altri è superfluo, mentre quel “poco” è “tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,41-44). Gesù di Nazareth sapeva scovare i gesti di bellezza e di sincerità nascosti tra tante volgarità, banalità, e falsità. Per questo si dedicava a recuperare la bellezza offuscata, minacciata, cancellata dalla malattia, dall’invalidità, dall’emarginazione, dalla morte, dal peccato. Chi s’innamora di Gesù sentirà un forte desiderio di amarlo e seguirlo per imparare a guardare il mondo con i suoi occhi, farà di tutto per avere una vita bella e si dedicherà a recuperare bellezza da tutto ciò che la nasconde e la deturpa.

Questo è il Gesù dei Vangeli che vogliono rubarci: un uomo forte, battagliero, libero, ma tenero e amante della bellezza soprattutto quella spirituale. Gli scribi, come i farisei, sanno tutto della religione, ostentano la loro sapienza e peccano di presunzione nel ritenersi graditi a Dio. La vedova, al contrario, butta sulla bilancia la sua vita e, avendo dato tutto quello che ha, gioca tutto quello che è: a Dio, con mano umile e leggera, dona i suoi spiccioli, le sue monetine, i suoi pochissimi talenti. E siccome sono pochi, li depone con delicatezza di donna nei vasi del tempio. Gettandoli svuota la sua vita, spalanca il suo cuore, gioca il tutto per tutto. Imbarazzante questa vedova, l’esatto contrario del giovane ricco.

Di lui i vangeli tramandano la tristezza sul volto nell’attimo del rifiuto, anche se conosceva e osservava tutti i comandamenti. Mi guardo allo specchio e considero che questa donna – vedova, povera e forse poco seducente – “mi passa avanti” e mi fa paura perché mi urla che i sogni di Dio non accettano calcoli, chiedono di strappare la mia storia, di accelerare i tempi, di non vergognarmi del mio poco. Mi ricorda che non ci può essere fedeltà senza rischio. D’altra parte anche Dio rischia oggi ad investire su di me.

XXXIII Domenica T. Ordinario Correre con gli occhi bendati…– Mc 13, 24-32  

(commento di mons. Antonio Riboldi Chi siamo e come viviamo nel breve periodo che Dio ci concede sulla terra? Se non ci lasciamo sviare dalle sirene che tentano di distrarci per farci vivere solo l’attimo fuggente, avvertiamo come il tempo scorra via, alla velocità del suono, e gli anni vissuti paiono istanti… Si ha davvero la sensazione che la vita corra più di quanto vorremmo, in un continuo mutamento, come una rincorsa tra speranze, ansie e sofferenze, ma soprattutto, se si segue la ragione, viene da chiedersi: “Che cosa sarà di tutti noi, del mondo, alla fine dei tempi?”
Sono quindi giuste domande quelle che ci poniamo che rivelano, se fatte con serietà, nobiltà di riflessione, perché mettono in discussione tutto di noi, per chi viviamo, del come viviamo, correndo verso il futuro che ci attende.
È vero che tanta gente non vuole porsele, scegliendo di correre con gli occhi bendati, senza neppure chiedersi dove finirà la propria corsa su questa terra e stabilendo, che la conclusione di tutto è il nulla di una tomba.

Che tristezza! Questo è davvero annullare ogni umanità e spiritualità dell’uomo, contraddire la sua evidente ansia d’infinito, che è la traccia chiara che testimonia il nostro essere “ad immagine e somiglianza di Dio”, quindi creati per l’eternità. Dovremmo sapere tutti che la vita Dio l’ha donata non come un breve soggiorno che si concluderà con la morte, non avrebbe senso. Se riflettiamo un po’ e con serietà, sentiamo che è forte l’interrogativo sul futuro dopo la morte.

Da dove giunge una tale ‘ansia’ d’eterno? Può essere la conseguenza di sentirsi solo “polvere e fango” o non piuttosto il dono profondo dello Spirito che già abita in noi? Chiediamo la luce per credere o per confermare la nostra fede: sì, la vita è dono di Dio, per costruire la santità che consiste nell’amare come Lui ci ha amati, ed essere così pronti, domani, ad incontrarlo che, per Amore, ci ha già riaperto le porte del Cielo.
Al catechismo avevamo imparato che la ragione del nostro essere al mondo, era chiara e rassicurante: ‘Per conoscere Dio, amarlo, servirlo in questa vita, per poi essere felice con Lui in Paradiso’.
Purtroppo il nostro tempo, tanto evoluto e tecnologico, ma troppo materialista, ha cancellato questa ragione fondante della nostra esistenza: una vigilia per la gran festa futura, in vista della quale dovremmo imparare a vivere con responsabilità ogni scelta terrena, con l’amore necessario, che si attinge guardando al Cielo e che ci prepara alla Vita eterna che ci attende.
Gesù affronta il discorso dell’ultimo giorno, non come uno spezzarsi dei legami o il venir meno della speranza, ma come un cambiamento radicale che finalmente metterà a fuoco ciò che nella vita terrena

SOLENNITA’ DI CRISTO RE – “Il” fine e non “la” fine – Gv 18, 33-37 (commento di don Marco Pozza)      

Contemplando la Bellezza Crocifissa, non parleremo de “la fine” dell’avventura umana di Gesù ma, questa domenica, scopriremo –          finalmente e senza dubbi – “il fine” della storia, in                      altre parole, com’era all’inizio nell’immaginazione di Colui che le ha dato forma e bellezza. Parlare al maschile o al femminile ci aiuterà a capire come l’uomo e la donna avranno interpretato la loro vita quaggiù in terra.La storia l’hanno coniugata al femminile coloro che usavano l’escamotage per giustificare l’angoscia e lo spavento, la diffidenza e la paura, la stanchezza e quell’inerzia tipica di chi ha vissuto senza rischi. Nella Sacra Scrittura avranno anche trovato giustificazione: dal servo malvagio e infingardo della parabola dei talenti al giovane tristemente ricco ma rimasto senza nome passando per quella sterminata e fastidiosa serie di falsi profeti, d’uomini e donne vissuti senza infamia e senza gloria. Essi proveranno una grande nostalgia per aver contemplato, tardivamente, che la vera Gloria abitava nello strazio di un Uomo Crocifisso che ha sempre difeso ciò che era negato e disprezzato dall’intelligenza di chi governava la storia. Per chi avrà sempre usato il genere maschile, oggi la liturgia svelerà “il fine” della storia, in altre parole s’accenderà luminoso il grande segreto che il Creatore aveva posto nel cuore della Storia per farla battere di speranza quaggiù. Per costoro vivere sarà stata un’avventura senza noia per giungere a contemplare il Volto radioso e affascinante di Colui che, strozzato come un malfattore ebbe il coraggio di affermare che: “Il mio Regno non è di quaggiù”. Gesù e i discepoli furono presi per pazzi, per ubriachi, le loro voci furono sgozzate nei patiboli e infilate con gli spaghi nelle sinagoghe: eppure essi non tacquero. Perché per loro la storia tendeva ad “un fine”, non “alla fine”. I santi sono i veri realisti, tengono conto che l’uomo così com’è, non ha speranza, e non fuggono dal presente per rifugiarsi nel futuro. Essi sono i veri utopisti: nonostante tutto, si danno da fare e sperano contro la speranza. Vivono della prodigalità dell’amore eucaristico di Dio. I santi sono umili: vale a dire, la mediocrità della Chiesa non li scoraggia a solidarizzare definitivamente con essa; perché sanno bene che senza la Chiesa non troverebbero la strada che li porta a Dio. Combattono la mediocrità, non con la contestazione ma stimolando, contagiando, accendendo i cuori migliori. Di chi fu vera gloria ancora non è dato sapere. Rimane quel Volto Trafitto come ultima parola di un anno liturgico. Per non morire di disperazione.